STRASTORIE EXTRALARGE
UN ROMANZO SCRITTO ATTRAVERSO
L’INTERAZIONE CON I LETTORI DA RICCARDO BESOLA, ANDREA B. FERRARI E FRANCESCO
GALLONE
Guendalina Ravazzoni, In viaggio, ancora |
Capitolo
17
In cui
scopriamo dei palazzi con il tetto fatto di cielo
La strana combriccola di umani e animali si ritrovò in via Tortona 13 in
men che non si dica. Liscione aveva suggerito alle nutrie un paio di
soprannomi, Banda Quasi Nutria e Banda Balorda. Il nome che però si addiceva
maggiormente a questa nuova compagnia era Figli del Vento. Giacomo infatti
guidò la BMW del car-sharing con una velocità media da ritiro immediato della
patente, come fanno tutti quelli che prendono quelle vetture, ovvero sapendo
che il tempo è denaro, e più veloce si va, meno tempo ci si impiega e meno si
paga. Poco importa se nel tragitto vennero bruciati quattro semafori, sedici stop,
e diciannove segnali di precedenza. E poco importa se l’anziana che stava
pacificamente attraversando con il semaforo verde, sulle strisce pedonali,
all’uscita del mercato comunale di piazza Wagner dopo aver fatto la spesa,
vedendosi arrivare davanti al naso il muso del BMW ripercorse in tre secondi
tutta la sua vita, dettagli compresi, a colori e in sedici noni e in dolby
surround, proprio lei che diceva sempre che con l’età aveva ormai perso la
memoria.
“Giacomo, vai più piano!” disse sua madre.
“Sto andando piano!” replicò lui.
“Rallenta!” aggiunse Anna.
Sul sedile posteriore Jake, Scolo e PM10 pensavano che quella fosse la
fine del mondo e che a breve avrebbero incontrato la Santa Nutria, e si
abbracciarono fraternamente, pellicciotti intrecciati, fino a che Scolo per la
paura iniziò a fare delle puzzette davvero imbarazzanti. Nel trasportino I-guana
era invece impassibile: abituata alla guida estrema ispirata dal car-sharing,
pensava che Giacomo avrebbe presto compreso il segreto dei dischi e della
mappa, cosa che lei aveva già intuito, ma d’altronde gli umani hanno i loro
ritmi e non si poteva pretendere troppo.
Sull’iPhone arrivò una notifica di Instagram che, al raggiungimento dei
tre milioni di like per la foto pubblicata la sera precedente, suggeriva di organizzare
un evento per i propri followers, creando un flash mob. Alcuni locali di
tendenza del centro città offrivano gratuitamente il loro supporto logistico.
Nessuno però aveva il tempo di guardare il cellulare.
Giacomo parcheggiò la BMW e scesero tutti, grati di essere ancora vivi e
con i pezzi del corpo attaccati al loro posto. Forse le budella erano
leggermente sottosopra…
“Vi preparo qualcosa da mangiare” disse la mamma di Giacomo e Anna
aprendo la porta d’ingresso dell’appartamento.
“Aspetta, mamma” intervenne Anna entrando, seguita da tre nutrie e che,
a sua volta, seguì Giacomo in salotto con i dischi bucherellati, la scatolina
con gli occhi di vetro di suo padre, la misteriosa mappa e il confortevole
trasportino imbottito con dentro I-guana.
“Magari dei panini” insistette la mamma.
“Sì, ma non adesso, dobbiamo capire dove sono finiti papà, Luca e tutti
gli altri…”
Si sedettero sul divano angolare.
Anche Jake, Scolo e PM10 si accomodarono, ma sul tappeto, vicini a I-guana.
“Siamo arrivati, puoi smetterla” disse Jake a Scolo, che continuava a
emettere delle fastidiose flatulenze.
“Ho perso il controllo delle mie chiappe e tutto ciò ivi contenuto,
l’umano ci ha portati a una zampa dalla morte!”
“Dopo l’attacco dei ratti non mi spaventa più nulla!” disse fieramente
Jake. “Soltanto il destino di Luca.”
“Luca sta bene. E questo umano capirà tutto del segreto del cielo” disse
allora PM10.
“Certo che capirà, lasciatelo pensare in pace” disse I-guana.
Si zittirono. Il tempo scorreva inesorabile.
“Non è possibile, eppure…” disse poi Giacomo, guardando uno dei dischi
in vinile che aveva estratto dalla custodia.
“Che cosa?” chiese sua sorella.
“Papà mi portava al Planetario, quando ero piccolo…”
“Al sabato pomeriggio, quando poteva. Ti piaceva così tanto, ne parlavi
per giorni interi, prima di andarci chiedevi sempre se era quello il giorno giusto,
non vedevi l’ora” disse sua madre. Il suo sguardo era dolce e malinconico, di
chi ricorda qualcosa che non tornerà più.
“E allora?” domandò Anna.
“Mi aveva costruito una specie di gioco da fare in casa” rispose Giacomo
“che simulava l’effetto delle stelle”.
Ci fu un attimo di sospensione, in cui nessuno respirò.
“Con un disco come questo. Con i buchi così, intendo.”
“E come funzionava?” chiese sua sorella.
“Una torcia elettrica. Una biglia di vetro. Un disco” disse sua madre.
“Me lo ricordo. Papà aveva un sacco di fantasia quando eravate piccoli, sapeva
immaginare e costruire tantissime cose.”.
“Ma certo!” quasi gridò Giacomo sollevandosi dal divano, quindi afferrò
il suo iPhone, ignorò di nuovo la notifica di Instagram e attivò la funzione
torcia. Lo posò sul tappeto al centro della stanza, afferrò uno degli occhi di
vetro con all’interno una minuscola Madonnina, lo appoggiò sul fascio luminoso,
poi prese il disco e con delicatezza lo sistemò in equilibrio con il foro
centrale perfettamente al centro della sfera di vetro.
“Ecco, e adesso abbassiamo le tapparelle!” esclamò.
Sotto lo sguardo incuriosito della madre, Anna e suo fratello tirarono
giù le tapparelle del salotto e nella stanza si fece buio. La luce fredda che
usciva dall’iPhone si spandeva attraversando l’occhio di vetro e tramite i
buchi nel vinile veniva proiettata sul soffitto, su cui adesso c’erano una
Madonnina al centro, quattro punti luminosi intorno, e altri due più lontani,
che finivano in cima a una delle pareti. Raccolse allora la mappa e vide che su
una delle estremità c’erano due forellini. Li orientò come quelli presenti sul
bordo esterno del disco, poi posò la mappa sul vinile.
“Le X corrispondono ai punti luminosi…” disse Anna.
“Papà sapeva che avrei capito. Ha fatto tutto questo per me. Perché
potessi capire!”
“Ma perché? Capire cosa?” chiese sua sorella.
“Come raggiungerlo” rispose la madre.
“E tu come fai a saperlo?”
“Non ho detto di saperlo. Però conosco bene vostro padre. E non avrebbe
mai abbandonato né voi né me se non fosse stato sicuro che in caso di bisogno
avremmo potuto ritrovarlo, sia sulla Martesana che altrove…”
“Ma che vogliono dire quelle X?”
“Aspetta!” disse Giacomo, “Ho capito! La Madonnina è il centro di
Milano! Il Duomo! È una mappa della città. Dammi il tuo telefono!”
Anna lo prese dalla tasca e glielo passò, Giacomo armeggiò per qualche
secondo, disse: “Sì, hai abbastanza memoria libera, dovrei farcela”.
“A fare cosa?”
“A scaricare SSE 9.0.”
“E cosa cavolo sarebbe?”
“L’ultima versione di Space Sky Evolution. Lo vedrai da te, sister!”
disse orgoglioso.
“E non ce l’hai sul tuo iPhone?”
“Certo, ma per fare quello che voglio fare dobbiamo connetterci insieme!
Solo con due cellulari possiamo ottenere senza troppi sbatti l’effetto Real
3D.”
Anna lo guardò perplessa. Per lei il cellulare serviva ancora per
telefonare e basta, come ai vecchi tempi. Tutt’al più aveva installato qualche app
per mandare i messaggi e null’altro. Aveva sempre diffidato della tecnologia,
temendo che col tempo avrebbe potuto creare una pericolosa quanto inutile
dipendenza, imprigionando la mente in un mondo virtuale.
“Ecco fatto! Qualche minuto di pazienza” disse Giacomo.
Scolo aveva smesso di imputridire l’aria con le sue flatulenze.
Le chiappe gli si erano improvvisamente ristrette per l’emozione.
L’umano aveva capito! Forse anche meglio di loro. Jake riprese a respirare con facilità
e guardò PM10, che li fissava compiaciuto della sua infallibile preveggenza. I-guana
osservava tutti loro divertita, perché erano arrivati a una conclusione a cui
lei era giunta già da un pezzo.
Mentre la app SSE 9.0 si scaricava sul cellulare di Anna, Giacomo chiese
a sua madre una torcia elettrica e la mise al posto del suo iPhone, che
raccolse da terra. Smanettò sullo schermo e per la seconda volta ignorò l’icona
di Instagram “Top of the Top Influencer: crea flash mob”. Aprì la app già scaricata sul suo cellulare e digitò: “dove sei
ora”. In pochi istanti comparve Milano vista dal cielo.
“La uso per condividere le location in cui faccio gli eventi dei miei locali.”
“Ma non c’è Google Maps…o Google Earth?” osservò Anna.
“Antica sister, quella è roba vecchia, troppo old. Questa si connette al
navigatore delle auto a guida automatica e ti ci porta diretto e sereno. T’è
capì? Do you understand?”
“Ho capito, ma a noi a che serve?”
Giacomo non rispose, aprì la funzione “proietta” e posò il telefono a
terra accanto alla torcia a pile: la vista della città di Milano si proiettò
sul soffitto e si sovrappose alla mappa del Malandato. Giacomo fece svariate zoomate
affinché la Madonnina dell’occhio coincidesse con la Madonnina vista dal
satellite SSE 9.0.
Tutti e tre gli umani, Giacomo, Anna e la mamma, guardarono stupefatti:
i quattro punti luminosi che uscivano dal disco corrispondevano a quattro
quadrati o rettangoli di cielo in altrettante zone di Milano. Buchi di cielo?
Anche gli animali avevano le mascelle a dondolo. Ma com’era possibile?
“A quanto pare la tua app non funziona tanto bene” disse Anna.
“Impossibile” ribatté Giacomo. “Viene aggiornata ogni sei ore da nove
satelliti in contemporanea”.
“E allora quei buchi?”
“Non sono buchi”
“E cosa sono?”
“Non lo so. Ma lo scopriremo subito.”
Raccolse il cellulare della sorella: l’app era scaricata e installata,
poteva usarla. La aprì, attivò il bluetooth, selezionò “collega device”, trovò
il suo iPhone, “collega ora”, poi andò su “opzioni” e selezionò “Real 3D”. Posò
allora il cellulare accanto al suo. La stanza si riempì di palazzi e strade e
via e piazze, era come in quel salotto ci fosse tutta la città. Incredibile!
“Come vedi quei buchi sono tetti di palazzi. Palazzi alti. Li vedete?”
Anna e sua madre annuirono.
“Dove sono papà e Luca?”
“Su uno di quei palazzi” disse la gattara.
“Ma perché non hanno il tetto?” chiese Anna.
Giacomo iniziò a smanettare con i due cellulari, zoomò più volte fino a
che la risoluzione si sgranò, ma l’immagine proiettata fu sufficientemente
chiara per capire.
“Sono specchi! Sorretti da strutture portanti, le vedi?” disse
indicando, quasi toccando, qualcosa che era soltanto luce e non si lasciava
toccare. “Quelli sono i montanti…”.
“Le edicole!” gridò Anna. “Quelli sono i pezzi delle vecchie edicole!”
“E gli specchi riflettono l’immagine del cielo e li rendono invisibili!”
I-guana comprese che era il momento di intervenire. Sbadigliò, poi
chiamò le nutrie.
“Ehi, voi.”
“Dici a noi?” chiese Scolo.
“Sì, dice a noi” rispose PM10.
“Che vuoi?” chiese Jake.
“Il mio umano ha capito, ma non tutto. Come tutti quelli della sua
specie ha questo difetto, appena scopre una cosa crede di aver scoperto tutto e
smette di cercare. Prendete gli altri dischi e metteteli accanto all’altro!”
Jake, Scolo e PM10 spinsero con le loro zampette gli altri tre vinili
sul tappeto accanto alla torcia a pile.
Giacomo guardò sbigottito le nutrie: cosa volevano quelle tre cose pelose?
Poi capì quello che stavano cercando di dirgli.
“Ma certo!” esclamò.
Raccolse i tre dischi, sfilò i vinili e li sovrappose al primo, sempre
tenendo i due forellini sul bordo come riferimento. Sul soffitto restò un solo
punto luminoso a indicare un palazzo abbandonato in zona Bovisa.
“Ecco dov’è papà!” esclamò.
Fu in quel momento che tutti sentirono picchiettare insistentemente sul
vetro.
Fecero un salto per lo spavento. Chi poteva essere?
“Craaa craaa, sono Raf.
Aprite!”
“Non fate i fessi e aprite quest’affare!” disse la voce di Don
Picciotto.
Anna sollevò una tapparella.
Fuori dalla finestra c’erano una cornacchia, un piccione posato su un
vassoio sorretto da altri piccioni, e sotto di loro uno stormo immenso che
affollava il marciapiede.
Jake e Scolo si avvicinarono alla finestra.
Scolo ebbe un moto di gelosia quando vide Raf accanto a Don Picciotto.
“Che succede, Raf?”
“Don Picciotto è venuto a sapere di un fattaccio brutto avvenuto alla
Stazione Centrale. Due dei suoi sono eroicamente caduti sotto le grinfie di un
gatto senza coda! Pare fosse un emissario di qualcuno, un umano molto
pericoloso!”
“Come fate a dirlo?”
“Vedette del Tenente Colombo. Lo hanno visto. E seguito…”
“Anche a me era sembrato di vederne uno così alla Torre Galfa! E dov’è
andato?”
“Non lo immaginereste mai.”
“Al Refettorio Ambrosiano” disse PM10.
“Tu lo sapevi?” chiese Jake. “E perché non ce l’hai detto?”
“Beh, non me l’avete chiesto.”
“C’è qualcos’altro che dovremmo chiederti?” domandò Scolo.
“Per il momento no” rispose PM10.
Jake e Scolo sospirarono: quel loro amico era ben strano. Poi Jake capì
che bisognava unire le forze e provare a risolvere una volta per tutte quella
storia.
“Ascolta, Raf: abbiamo appena fatto una scoperta incredibile! Abbiamo
bisogno dell’aiuto di Don Picciotto e del Tenente Colombo!”
In breve Scolo spiegò a Raf ciò che era appena accaduto in quel salotto:
le proiezioni, la mappa, i palazzi con il tetto fatto di cielo.
“Ma allora è tutto chiaro!” disse Raf. “Il Tenente Colombo ha
ispezionato con la sua flotta aerea l’intera città! Alcuni tetti sembravano dei
portali per il cielo! Molti intercettori si sono schiantati nel tentativo di
attraversarli! Ora si spiega tutto! Specchi! Don Picciotto, hai sentito?”
Don Picciotto si guardò attorno placidamente, osservando tutti e
nessuno. Il suo sguardo non si poteva catturare. Era arrabbiato. Molto. Poi
parlò. O meglio, emise una sentenza.
“Ho sentito. Quello che vi posso dire è che in città c’è una legge degli
umani, ma nel cielo e sui tetti di Milano sono io la legge. Mi devono lasciare
stare o scateno una guerra che nemmeno se la sognano. Questo è il momento di
farglielo capire. Chiunque essi siano. Qui non si tratta più di favori. Qui si
tratta di onore e rispetto. E supremazia.”
“Dove si trova quel palazzo?” chiese Raf.
Jake e Scolo fecero segno con la zampa di guardare nella stanza. La luce
che arrivava da fuori sfumava la proiezione, ma comunque si intuivano i palazzi
e la città.
“È il vecchio palazzo delle Poste!” esclamò Giacomo. “In fondo al ponte
della Ghisolfa, in viale Bodio, prima di viale Jenner! Andiamo! Ci porterà lì
SSE 9.0!”
“Vi preparo dei panini” disse sua madre. “I sacchi vuoti non stanno in
piedi”.
I-guana e PM10 si guardarono scuotendo la testa.
“E ci voleva tanto a capirlo?” chiese PM10.
“Pensavo peggio” rispose I-guana.
La nutria rovesciò gli occhi all’indietro per un attimo, poi si mise a
fissare un punto indefinito nel vuoto. “Ci sarà una grande battaglia…” disse
ancora.
“Pensavo meglio” commentò allora I-guana.
Capitolo
18
In cui
vediamo quello che non c’è…
Flambé si aggirava curioso intorno al corpo di quell’estraneo e,
nonostante l’uomo fosse ormai innocuo, l’odore pungente delle nutrie che aveva
addosso continuava a infastidirgli il naso.
Il gatto che aveva conosciuto l’inferno e che stava man mano vedendo
sfumare il suo sogno di completare la propria collezione di code con una bella
appendice di nutria, cercava di svegliare lo straniero per capire dove fossero
nascosti i suoi amici dai denti gialli.
“Dài, Bob, aspetta un attimo. È ancora presto.”
Luca si rigirò sul divano, anche se nel sonno gli sembrava molto più
morbido dell’ultima volta in cui ci aveva dormito.
“Hai fame, Bob?” chiese senza aprire gli occhi. “Vai a guardare nel sacchetto
del Carrefour, ci deve essere una scartomerenda aperta, ho sonno. Fammi
dormire.”
Flambé si era stufato.
Le sue unghie retrattili uscirono fulminee e si conficcarono nella
coscia del ragazzo.
“Ahia, Bob! Ma che ti prende?”
Luca si svegliò di colpo, con lo strascico di alcuni strani sogni che
gli confondevano i pensieri.
Si sedette sul divano e passò il quarto d’ora successivo a fare ordine
nella sua mente.
Flambé fissava l’umano, ma a parte per i movimenti ritmici del suo
respiro gli sembrava di trovarsi di fronte a una statua.
Luca, lo sguardo fisso a ricercare la copertina invisibile di quel dvd del quale non aveva ancora memoria
concreta, sentì e vide un turbine di voci e immagini, vicine e lontane,
notissime e sconosciute al contempo. Gli sembrava che la sua mente fosse,
ormai, prigioniera in una stanza stretta e buia. Come se, per terrore, quello
inconscio di chi ha compreso tutto ma troppo in fretta, la mente stessa si
fosse infilata in un ripostiglio e sperasse di venir dimenticata come un
oggetto inutile in una vecchia casa.
“Ci ri-rivediamo, caro Lu-Luca”
Era forse la voce di Carcarlo? Eh, sì. Anzi era proprio Carcarlo, con i
suoi Miserabili in mano, e gli si
faceva incontro abbracciato al Malandato. Anche il vecchio filibustiere lo
salutava e gli sorrideva. Non avevano litigato dunque? Il libro era lì, nelle
mani di Carcarlo.
E che c’entrava Don Giuliano che, con le sue solite maniche arrotolate
sopra i gomiti, impartiva ordini a destra e a mancina per trasformare le
edicole in pareti e telai da cartongesso?
Poi arrivarono altre reminiscenze, frutto della paura più che del sonno,
come nel dvd di Matrix, il primo, che già dalla
copertina si capiva che i sequel fossero una mezza stupidata. Luca con un casco
in testa vedeva Gulliver, ormai stanco per i suoi viaggi. Ma Gulliver non era
altro che il suo avatar. Lui era Gulliver, e non perché avesse guardato il dvd ma perché era in una realtà
parallela che lo aveva trasportato fin lì, in quel luogo che avvertiva non
essere la Martesana nonostante fosse seduto sul divano. Poi si accorse di un
coro greco composto da uomini e animali, Anna e Giacomo con Giorgio – Quellonuovo
–, la cornacchia amica di Bob e proprio lui, Bob, il suo amico che gli aveva
appena graffiato la coscia.
La mano afferrò Flambé per la collottola e il gatto, controvoglia, si
trovò in braccio al ragazzo che fino a un secondo prima sembrava di marmo.
Luca si mise Bob in grembo come era solito fare, ma guardandolo negli
occhi si accorse di avere fra le braccia un altro animale. Aveva sbagliato
gatto. Questo era proprio uguale a quello della copertina del dvd, rossiccio con due occhi verdissimi,
ma senza coda. Il suo Bob non era così. Era marrone, con due dentoni giallastri
che spuntavano dal muso e con una lunga coda sottile e per nulla pelosa.
Tu non sei Bob, dov’è finito il mio amico Bob?
Flambé si ritirò velocemente, uscendo dalla stanza che era stata
assegnata all’umano e Luca, forse per la preoccupazione per aver smarrito Bob,
quello vero, riacquistò lucidità.
Era tutto reale, dunque? Di getto gli s’accamparono nella mente tutte le
tessere del puzzle che avevano stipato fino alla sera prima con Anna e Giacomo,
la sera in cui avrebbe dovuto parlare con loro, invece di fare tutto da solo.
Don Giuliano bussò alla porta mezzo aperta della stanza di Luca e attese
che lui lo facesse entrare.
“Avanti” disse Luca, finalmente desto e consapevole.
“Ben svegliato, figliolo, son le quattro passate” esordì Don Giuliano.
“Hai dormito e dormito così tanto che ci hai fatto spaventare. Ci dispiace,
forse abbiamo esagerato un po’, ma quando ti abbiamo trovato su quel balcone,
come in trance, che cercavi di andare su, abbiamo compreso che avevi capito e,
per non farti gridare, abbiamo deciso di sedarti. Un po’ di etere, nulla di più.”
Luca annuì e cercò di tranquillizzarsi.
Don Giuliano gli disse che quando voleva poteva andare nella sala comune
e farsi preparare qualcosa da mangiare, poi sparì lasciando la porta socchiusa.
Luca a quel punto si ricordò di aver capito cos’era successo al
Malandato, e che la soluzione del mistero era da ricercarsi sopra la città di
Milano, all’ultimo piano, proprio sui tetti. Così era uscito sul balcone per
cercare di vedere se ci fosse una strada possibile, diretta, per salire e per
avvisare Anna e suo fratello. Solo allora aveva avvertito che qualcuno lo
prelevava e lo portava via attraverso i tetti.
Poi aveva sentito quell’odore acre e tutto gli si era fatto lattiginoso,
quasi che sugli occhi gli fosse calata la nebbia come sul naviglio.
Di quello che gli era successo in quel tragitto non aveva che immagini
sfocate, e qualche voce. Alla fine, come gli aveva detto Don Giuliano, doveva
aver dormito per chissà quante ore. Quello che si ricordava, adesso, era che
aveva pensato a cosa ne sarebbe stato di Anna e Bob senza di lui.
Luca uscì dalla stanza e, spinto dalla fame, si mise a cercare la sala
comune della quale ignorava l’ubicazione. Solo allora si accorse di essere in
un grande edificio che era stato rimesso in piedi da mani esperte. Toccò le
pareti dei corridoi e gli sembrarono le stesse che aveva visto per tanti anni
quando era uno studente, prima, e un paziente negli istituti, poi. Sia le
scuole sia le strutture dei servizi sociali erano sempre dei prefabbricati e
queste pareti qui erano proprio identiche. In lontananza, ma nemmeno tanto,
Luca poteva sentire un continuo via vai di auto che sfrecciavano a una velocità
molto più alta di quelle che scorrevano dietro al naviglio, su per la stradina
che portava al Refettorio di Greco.
Un treno passò e a Luca parve essere quello che gli sferragliava sopra
la testa, quando viveva con Bob lungo la Martesana, solo che stavolta il treno
era sotto ed era lui che si trovava sopra.
A quel punto, iniziò a percepire i suoni interni al palazzo. Era una
specie di concerto di voci, rumori di attrezzi e risate sincere. Nonostante la
paura e la diffidenza, Luca si fece guidare da quelle risa e trovò la sala
comune. Si trattava di un grande ambiente delimitato da diverse paratie che lo
facevano sembrare una piazza spaziosa. Una rotonda dalla quale partivano sei o
sette raggi che davano l’abbrivio ad altrettante porzioni che Luca non riusciva
a vedere, ma che gli davano l’idea di essere un albergo o una specie di
dormitorio tipo quello di viale Ortles, ma bello.
Alle pareti, di un grigio ministeriale, era appesa una serie infinita di
illustrazioni colorate che sembravano appartenere a un unico artista. Luca ne
aveva viste di simili in giro per Milano, soprattutto sulle colonnine
dell’elettricità agli angoli di via Melchiorre Gioia. La cucina comune era al
centro della grande rotonda e un signore corpulento, con un grande grembiule
rosso, si destreggiava indaffarato fra pentole e padelle di ogni forma. Luca si
avvicinò e riconobbe una vecchia conoscenza che aveva incontrato qualche anno
prima in giro per le mense. Era Gualtiero, il cuoco dell’associazione di via
Tito Livio dove Luca era andato fino all’apertura del Refettorio. Gualtiero,
che in realtà di chiamava Romolo, era stato un grande cuoco, poi era finito in
disgrazia e alla fine era diventato ospite e volontario di quell’associazione di
cui Luca, lì per lì, non rammentava il nome. Si erano persi di vista da un po’
e Luca lo salutò come faceva un tempo:
“Signor Gualtiero, cosa bolle in pentola?”
Il cuoco si girò, e riconobbe il giovane senzatetto.
“Tutto il meglio che passa il convento, caro il mio sbarbato!”
Poi l’omone uscì dall’isolotto fatto di fornelli e piani di lavoro e
l’abbracciò.
“Bravo il mio ragazzo, io lo sapevo che eri speciale. Benvenuto a casa”
disse Gualtiero e, vedendo arrivare Don Giuliano alle sue spalle, continuò “Don
Giuliano, pardòn, Carabas, venga che il ragazzo qui ha bisogno di orientarsi.
Sedetevi che vi servo qualcosa di veloce.”
“Non ora, Gualtiero, adesso porto Luca a fare un giro. Intanto dagli un
panino.”
Il cuoco annuì e diede a Luca un sandwich alto quasi venti centimetri,
prosciutto di Praga, peperoni e salsine varie, il tutto avvolto in un
tovagliolo di carta a quadretti rossi, come fossero davvero in paninoteca.
Luca ne addentò un morso, e si fece dappresso a Don Giuliano che era
seguito da Flambé, il gatto senza coda che lui aveva scambiato per Bob.
“Vieni per di qua” disse Don Giuliano indicando una scaletta di legno
che saliva a un piano superiore. Luca, sulla scaletta, notò che tutta la grande
rotonda aveva altre sei o sette scale simili in corrispondenza dei vari
corridoi.
Don Giuliano aprì una botola e sparì. Luca lo seguì e si trovò in un
luogo, se possibile, ancora più strano della sala comune.
Don Giuliano non parlava, ma con la sua manona abituata a benedire e a
mazzolare all’occorrenza mostrava con orgoglio quello che aveva realizzato.
Sul tetto di un palazzo che Luca non aveva ancora riconosciuto erano
disposte diverse botteghe di artigiano, una tipografia, delle serre per la
coltivazione di ortaggi e frutta, alcuni pollai intorno ai quali razzolavano
delle galline belle grassottelle, e tutto era ordinato e separato dai muri di
metallo verde delle edicole. Vide anche che in uno dei chioschi era stata
stipata una specie di sala server. Allora Luca capì che fine avevano fatto le
edicole. Non erano sparite e basta: avevano finito di essere utili agli uomini,
erano state scartate ed erano rinate a nuova vita quassù nella società dei
senzatetto che ora viveva sopra un tetto.
Quello che strabiliò Luca, oltre alla visionaria felicità di Don
Giuliano, fu che il tetto era delimitato da una serie interminabile di montanti
ricavati anche questi dalle strutture delle edicole e da pannelli trasparenti,
forse vetri a specchio, di quelli che impediscono agli altri di vedere
all’interno, sopra ai quali erano stati applicati con viti e bulloni
un’infinità di tubi per l’aria condizionata e motori di condizionatori. Lo
stesso valeva anche per la volta che li sovrastava.
Solo allora Luca capì dove si trovavano e diede un senso ai rumori delle
auto e dei treni.
“È il palazzo delle Poste abbandonato di piazzale Lugano?” chiese
indicando i condizionatori che escludevano agli occhi della città quella
meraviglia. Luca, per un periodo, aveva vissuto in una comunità protetta dalle
parti di via MacMahon e si ricordava quell’ammasso di condizionatori e
ferraglia che sembrava uscire dal palazzo come schiuma di ferro da una birra
appena versata in un boccale di cemento.
“Bravo, figliolo! Bravo!” disse Don Giuliano soddisfatto.
“Ma come avete fatto? E perché il Malandato è sparito? Non le bastava il
Refettorio, Don Giuliano?”
“Carabas, qui mi conoscono come Carabas, figliolo.”
“Come il Gatto con gli stivali?”
“Certo, proprio così. Sei davvero un ragazzo sveglio, figliolo.”
“E i computer?”
“Hai visto la nostra edicola server, eh? So che tu eri un mago con
quelle cose quando stavi con la tua mamma. E lì mi piacerebbe che affiancassi i
nostri grandi tecnici. Tutta gente come te, con la testa in una realtà diversa,
come la chiamate? Virtuale. Ci aiuterai a informatizzare la nostra società, a
criptare la nostra rete alternativa, caro Luca. Ma adesso vieni, vieni.”
Don Giuliano – anzi, Carabas – condusse Luca vicino alle barriere del
tetto, di modo che potesse osservare il sotto della città degli uomini e il
sopra della loro città, Laputa, la società maggiore, istituita alla sommità dei
palazzi di Milano.
“Caro figliolo” iniziò a predicare Carabas “noi qui abbiamo dato forma a
un’utopia e l’abbiamo resa reale. Laputa, la città celeste, non è più un sogno
o una speranza della fede, ma è una verità nascosta. Una verità che non deve
essere rivelata, altrimenti quelli di sotto, gli uomini che vi e ci hanno
emarginati, costretti a vivere sotto ai ponti, nelle tende lungo il Lambro o
all’addiaccio riparati sotto ai cavalcavia delle tangenziali, si
impadronirebbero anche del nostro sogno e lo farebbero crollare con le loro
terribili armi. Armi fatte di denaro, proprietà, efficienza e avidità. Loro,
non tutti sia chiaro, ma la maggioranza, hanno necessità che qualcuno viva in
povertà per il profitto e per scaricarsi le coscienze. In questo modo, caro
mio, puoi capire perché posti come il Refettorio e gli altri ostelli non
dovranno mai smettere di esistere, almeno per ora.”
“Ma gli altri che restano giù continueranno a stare male, mentre voi qui
su vivete in pace. Non mi pare giusto.”
“Luca, Luca, figliolo mio, il mondo dei giusti non è per tutti. Noi qui
abbiamo ricreato una società maggiore, una nuova umanità basata sulle pietre di
scarto che si fanno testata d’angolo. È dura, lo so, ma non c’è spazio per
tutti. Qui e negli altri posti che il Malandato aveva segnato sulle sue mappe,
quando ci stava cercando, si sono trasferiti centinaia di ex senzatetto, ma
solo i migliori, scelti con criteri che ne valorizzassero l’intelligenza e le
capacità e che prescindessero dalle loro condizioni di vita e mentali. Per gli
altri ci sarà tempo più avanti, mi spiego? Qui ci sono le punte di diamante
degli emarginati. Abbiamo laureati in agraria che si occupano delle
coltivazioni, come puoi notare da solo. Abbiamo ex luminari delle scienze
mediche caduti in disgrazia per i più svariati motivi che ci curano nel nostro
ospedale sospeso, nel piano fantasma della Torre Velasca.”
“Piano fantasma?”
“Ah, già, scusami, è che quando parlo della nostra esperienza mi scordo
che non tutti hanno in mente il quadro generale. Piano fantasma, perché uno dei
nostri primi compagni, uno storico dell’urbanizzazione di Milano, ci svelò che
la Torre Velasca possedeva un piano mai accatastato, una specie di
intercapedine fra il tetto vero e proprio e la terrazza. Abbiamo scovato gli
accessi e ne abbiamo tratto il nostro ricovero. Lì effettuiamo ricerche,
curiamo quelli di noi che non stanno bene e produciamo i nostri farmaci. È una
posizione strategica perché è a due passi dal Policlinico, dove abbiamo accessi
facilitati, per così dire.”
“Ma tutti questi tubi e ferraglie tenuti insieme dai pezzi delle
edicole?”
“Scarti, figliolo, scarti che si fanno testate d’angolo. Le edicole
dismesse sono diventate architravi per la nostra volta su questo palazzo come
sopra gli altri. E gli specchi fallati e i vetri a specchio dismessi dalle
varie fabbriche fallite sono divenuti i nostri baluardi. La città degli uomini
non ci cerca, non si accorge che scompariamo, e anche se lo facesse e venisse
quassù o alle torri di Bruzzano e via San Dionigi, sulla sommità della Galleria
Vittorio Emanuele e verso il Pirellone, non vedrebbe nient’altro che il cielo
grigio e la propria immagine riflessa da uno specchio. Non è stata una mia
idea, ma di uno dei nostri, grande scienziato ed ex docente di fisica a Città
Studi. Gli specchi inclinati in un certo modo danno l’impressione che un luogo
non esista perché riflettono proprio il cielo. È il principio degli
illusionisti da Houdini fino a David Copperfield, ora capisci?”
“Sì, ma la ferraglia?”
“Quella è scenografia. Ci sono voluti anni per creare la nostra società
e mimetizzarla in alto, dove i milanesi non guardano più. Scrutano avanti, nel
futuro, ma non in alto. Si limitano a parlarne, a consumare il cielo come la
terra, ma non guardano mai in su. È un fatto, caro figliolo. Così ci siamo
messi a costruire questa struttura proprio partendo da un concetto simile.
Tutti gli scarti qui da noi sono utili, gli scarti della città diventano città
stessa, parte del panorama che tutti percorrono dal mattino alla sera, quindi
il nostro piano attico è stato costruito full optional e condizionato, per così
dire.”
Luca si guardava intorno, cercando di comprendere se la nuova società
maggiore gli piacesse o meno e, soprattutto, se potesse rifiutare quell’invito
“cortese” che lo aveva fatto arrivare nel palazzo delle Poste. Una domanda,
però, lo angustiava più di tutte: avrebbe mai rivisto Bob e Anna?
“Ma il mio Bob?”
“Ah, il tuo Bob certo. Il tuo animaletto fedele che ha dato del filo da
torcere al mio Flambé, gattaccio vagabondo. Non ci sono problemi, verrà a stare
da noi. Sai che abbiamo anche una specie di zoo, proprio sopra i Bastioni di
Porta Venezia? Abbiamo pure una coppia di pavoni recuperati dalle parti di
Redecesio o forse a Milano2. Li avevano cacciati da dove li custodivano, ma non
abbiamo mai capito perché. E c’è anche un gigantesco acquario dove vengono
alloggiati, dai nostri etologi, tutti i pesci, esotici o meno, che vengono gettati
nei gabinetti di Milano. D’inverno succede meno, ma d’estate con le vacanze si
rischia l’ecatombe.”
Luca immaginò Bob in uno zoo sopra Porta Venezia, invece che libero
sotto il ponte in Martesana, e storse il naso. Era come avere davanti agli
occhi un dvd con una copertina
bellissima, affascinante e superbamente fotografata, ma qualcosa non gli
tornava. Era come se la sua immaginazione non materializzasse più storie e
immagini, come al solito, anzi fosse peggio che vedere il dvd con il lettore. Luca era inquieto,
anche se capiva che Don Giuliano, alias Carabas, aveva le migliori intenzioni.
“Ma perché il Malandato ha fatto tutto quello che ha fatto? Le mappe, la
videocassetta, e perché vi stava cercando?”
“Perché anch’io, ragazzo, mi ero accorto che un po’ di noi giù nei bassifondi
stavano sparendo” disse il Malandato, apparendo in quel momento in carne, ossa
e occhio di vetro. “E Carcarlo, qui, era d’accordo con me” chiosò il vecchio
filibustiere, abbracciando proprio Carcarlo che stringeva in mano la sua
preziosissima copia dei Miserabili.
“Sì, sì, ca-caro Lu-Luca, e-era un se-segnale. Sta-stavamo facendo
fi-finta e dovevamo ca-capire perché qualcuno sta-stava spare-sparendo. Siamo
sta-stati brav-bravi, eh?”
“Ma tua moglie, Anna e Giacomo?”
“Oh, caro il mio Luca, loro hanno tutto il mio amore e, visto che tu hai
capito cosa stava succedendo sopra la città, credo che li rivedrò presto.
Giovanni è il mio fiore all’occhiello, poi. Sono sicuro che ha trovato
l’indizio del Planetario. Erano i nostri pomeriggi migliori quelli che
passavamo là.”
“Giovanni?”
“Ah, certo, Giacomo, Giacomo. Il suo primo nome è Giovanni come da
tradizione famigliare, ma non gli è mai piaciuto, quindi usa solo Giacomo.”
A quel punto dalla botola che portava al tetto spuntò una testa di
capelli che ci mise almeno tre o quattro tentativi a sbucare fuori. Su, giù.
Su, giù. Su, giù. Su, giù e su, finalmente.
“Dicci, Fermo, che succede?”
“Carabas, abbiamo visite. Stanno arrivando.”
Tutti guardarono giù, verso piazzale Lugano, ma solo Flambé che aveva
origliato di nascosto si accucciò in un cantuccio, pronto a colpire.
Capitolo 19
In cui la quiete
succede alla battaglia
Il cielo sopra Milano regalava ai
suoi abitanti un tramonto autunnale, dai colori caldi, un tramonto che
preannunciava la fine, e la faceva apparire bella e ineluttabile. Gli abitatori
del cielo scrutavano la botola, in attesa che ne sbucassero i nuovi venuti,
pronti ad accoglierli a dovere. Carabas stava solo, superbo, un passo dinanzi a
tutti, e il sole, arancione, filtrava da dietro la sua testa rendendolo un eroe
olimpico, uno che in cielo non ci stonava mica.
La prima testa emerse dalla
botola, venne fuori con tutta la barba al seguito, socchiuse gli occhi perché
il tramonto era abbagliante, o forse lo era quel prete statuario, o forse tutti
quegli specchi d'intorno in cui il sole si rifletteva e si moltiplicava.
Giacomo si sollevò con I-guana che spuntava dal suo trasportino marsupiale da
collo, e fu sul tetto, e non disse niente, non c'era niente da dire: sapeva che
quello era il termine della ricerca ma non immaginava fosse così, e non gli
interessava neppure, incrociò solo lo sguardo con quello fiero, orgoglioso, di
suo padre, e avvertì le lacrime gonfiargli le palpebre.
Dietro di lui, emerse Anna, più
che Venere dalla conchiglia, Atena dall'emicrania di Zeus: “Papà!”.
“Anna...”
“Don Giuliano?”
“Signorina...”
“Signor Carcarlo! Fermo!”
“Sia-siamo tutti qui,
si-signorina... stia-stiamo bene!”
“Luca!”
E Luca non fece in tempo a dire
niente, perché Anna gli si tuffò nel petto, gli si tuffò nel cuore, e quel
cuore divenne un mare in tempesta, sublime, le cui onde s'abbattono sugli
scogli e fanno scomparire tutto il mondo attorno, e Luca le strinse le braccia
attorno alle spalle, e il suo amore sommerse la ragazza che vi si rifugiò
felice, si lasciò trascinare nella profondità di quell'affetto e pianse, perché
aveva temuto per lui, e Luca sorrise e la strinse più forte.
Jake, Scolo e PM10 vennero su per
ultimi, ma l'unico a degnarli di autentica attenzione fu Flambé: si guardarono
in nutriesco e gattesco, ma la situazione consigliò a tutti di conservare la
calma. Jake fissò Luca e lo vide come non l'aveva mai visto, e fu felice e al
contempo malinconico, perché intuì che quella ragazza aveva cambiato le cose, e
se le cose cambiavano, nella vita di Luca non ci sarebbe stato più posto per
una nutria, per intelligente ed educata che fosse. Sentì qualcosa
strusciarglisi addosso, era Scolo. Aveva capito tutto, e gli stava ricordando
che, comunque, non sarebbe rimasto solo. C'era un'intera Martesana da bere!
Il sole tramontò, e venne la
sera. Il flusso delle auto scemava, e Carabas fece servire la cena, mentre
spiegava ai figli del Malandato ciò che aveva spiegato a Luca. Aveva trascorso
la vita a cercare di diventare l'uomo che avrebbe voluto essere, e farsi Carabas
aveva fatto parte di questo percorso. Una sera, guardando le guglie del Duomo,
con tutti quei santi e quegli angeli, pensando ai suoi barboni che dormivano
per strada, nelle fessure, sulle griglie del metrò, ebbe un'ispirazione a una
giustizia poetica, e decise di elevarli. Il difficile era stato cominciare – il
primo palazzo da occupare, i primi elementi da coinvolgere –, ma poi, a mano a
mano, tutto era diventato più realizzabile, ognuno aggiungeva un'idea e
quell'idea completava il suo sogno: “Certo, sembra assurdo. Pareva una
fantasticheria anche a me, prima. Eppure l'abbiamo fatto. Non è stato facile,
per niente. Abbiamo dovuto coinvolgere persone che avrebbero voluto essere
lasciate in pace, al sicuro delle esistenze che s'erano scelte. Abbiamo dovuto
coinvolgerne altre troppo impegnate con le proprie battaglie quotidiane per
notarci da sole. La gente normale, come la chiamano i proprietari delle parole,
non ci vedeva prima, non ci vede ora. Ma questo non significa che noi non
viviamo sopra il cielo. Ci siamo elevati, là dove ci sono solo santi, sognatori
e pazzi, ovvero dove stanno gli individui liberi. Quello che abbiamo costruito
è realizzato, e ne godiamo noi. Costruito per noi. Non siamo un'armata alla
conquista del territorio nemico, perché il territorio nemico non ci interessa:
a noi interessa il cielo. A noi interessa la nostra libertà, la nostra
indipendenza, la nostra autonomia... Qui possiamo essere totalmente onesti,
totalmente noi stessi. Qui io posso essere il prete che volevo essere quando ho
sentito la vocazione, Carcarlo può dedicarsi ai suoi libri e all'insegnamento,
vostro padre può essere l'avventuriero che era prima di diventare un
imprenditore fallito. Possiamo indossare costumi, coltivare, immaginare il
mondo che avremmo voluto e realizzarlo. Chi ci ha aiutati, chi ci ha dato anche
solo un semplicissimo suggerimento, o consiglio, condivide la nostra gioia, il
nostro orgoglio, gode di questo sogno come se fosse suo, perché è pure suo. E
chi ci ignora non avverte la nostra mancanza. Non può concepirci, perché è
prigioniero. È nato, prigioniero. È nato schiavo, e non sa cos'è essere liberi.
È nato morto, e non ha mai vissuto, non ha mai saputo cosa fosse, la vita. E io
sono vivo. E libero. E trovandoci, avete dimostrato di esserlo anche voi. Oh,
scusate, mi sono dilungato con la predica... Benvenuti alla mensa del Signore!”
Gualtiero servì in tavola, una
tavola lunghissima, per quaranta persone; Giacomo, seduto accanto a suo padre,
lo stava ascoltando, mentre il Malandato gli spiegava come avesse escogitato
una maniera per comunicare a lui, e a lui soltanto, la mappa dei luoghi che
stava cercando, nel caso gli fosse successo qualcosa: “Sai, Giacomo, io non
sapevo che a far sparire i senzatetto fosse Don G... Carabas. E non potevo
sapere che qui venivano a stare meglio. Stavo indagando, e temevo che la mia
vita fosse in pericolo, così ho pensato che se ti avessi lasciato un messaggio
nei dischi tu lo avresti trovato”.
“E così è stato, daddy! Ma
ascolta, qui come la vedete la cucina vegana?”
Jake, Scolo e Pellicciotto
Maculato avevano ricevuto la loro cena in fondo alla tavolata, accanto al gatto
Flambé. Avevano stretto un tacito patto di non aggressione, ma comunque si
tenevano all'erta. Raf la Cornacchia e la corte di Don Picciotto stavano
appollaiati in cima alle strutture di specchi che circondavano il tetto,
tutt'attorno, la qual cosa rendeva ancor più irrequieto il felino senza coda. I
piccioni covavano vendetta, ma Flambé delle uova mangiava anche il guscio.
Carabas si mise a spiegare ad
Anna com'erano organizzate le sette comunità che aveva progettato di fondare su
sette tetti di Milano, più il piano fantasma della Torre Velasca. Ognuna
sarebbe stata autosufficiente, ma poteva contare sulle sorelle. Pian piano Carabas
avrebbe portato via i barboni dalle strade. Per ora solo i migliori, ma a poco
a poco anche tutti gli altri.
“Perché?” chiese allora Anna.
“Perché? Perché non meritano di
vivere così. Perché non meritano il disprezzo della gente. E poi perché...
perché qui sono al sicuro.”
“Ma lei aveva già altri progetti,
per aiutarli. Refettori, dormitori...”
“Vede, signorina... Là, a terra,
c'è il mondo degli uomini. E gli uomini sono meschini. Ci sono persone che
sacrificano il proprio tempo libero, le proprie energie, per il prossimo. Si
parla tanto di eroi, ma ci sono piccoli gesti eroici che elevano le persone che
si adoperano per gli altri, certo. E fondano organizzazioni, associazioni...
poi arriva la gramigna. Ho scoperto che al Refettorio alcuni dei miei
commensali vengono utilizzati, inconsapevoli, per consegnare droga o armi.
Insospettabili perché barboni, in cambio di un cartone di vino, una coperta o,
per uno come Carcarlo, un libro, trasportano una borsa o uno zaino attraverso
il quartiere, o attraverso la città. Nessuno li ferma, nessuno li controlla.
Qualche anno fa, venne da me Fermo. Ero in un'altra parrocchia, all'epoca. Mi
disse che era riuscito a fuggire dal dormitorio dove sostenevano di ospitarlo,
ma lo tenevano in realtà recluso per ottenere dallo Stato l'assegno per
mantenerlo. La stessa sorte era capitata a Tommy, quel ragazzino che vede
seduto là: prigioniero di una casa famiglia! Fuggì, e continuò ad andare a
scuola dormendo in una baracca di cartone. È il senzatetto più giovane che ho.
Per non parlare, poi, di quelli che hanno bisogno di cure mediche, o
psichiatriche... I senzatetto non devono temere solo chi non li vuole, ma a
volte pure chi dice di volerli. Qui sono liberi. Non c'è denaro. C'è solo il
cielo, e il lavoro per essere autosufficienti. Qui c'è...”
Le nutrie avvertirono un rumore
fastidioso, e sollevarono i nasi al cielo. Flambé arcuò la schiena, e avrebbe
gonfiato la coda, ad averne una. I piccioni si sollevarono d'improvviso in
volo, dileguandosi in ogni dove: solo Raf rimase tenacemente appollaiata là, in
vista dei suoi amici roditori. Il ronzio si fece sempre più forte, finché sopra
le teste di tutti non comparvero due droni, aracnidi metallici volanti dai
potenti occhi luminosi. Carabas reagì all'istante: balzò sul tavolo, afferrò
una bottiglia di vino piena e, a malincuore, la scagliò contro il più vicino
dei due robot, abbattendolo. “Ci hanno individuati!” gridò.
Nella piazza sottostante, dentro
un Ulysse nero parcheggiato male, Giorgio e la sua spalla seguivano la scena
dai monitor dei propri computer portatili. Una delle finestre video sullo
schermo si oscurò, dopo che Don Giuliano – nome in codice Carabas – ebbe
lanciato un oggetto contro il drone radiocomandato. Giorgio sorrise, d'un
sorriso cattivo: “Li abbiamo trovati, finalmente!”.
“Ce li hanno trovati loro.”
“L'importante è il risultato!”
Giorgio e il suo compare senza
nome scesero dall'auto e con una torcia diressero un segnale verso due grossi
furgoni parcheggiati di traverso all'imboccatura della strada chiusa in cui si
trovava il vecchio palazzo delle Poste. I portelloni laterali scorsero, e
vennero vomitati in strada una trentina di brutti ceffi, picchiatori
prezzolati, ultrà, buttafuori, spacciatori, tutti in felpa e calzoni neri.
Alcuni s'accompagnavano a cani, molossi e mastini, pitbull, rottweiler, dogo e
persino un dobermann. Reggevano mazze e fumogeni, e aspettavano che Giorgio
parlasse: “Sono lassù. Fate male a tutti, molto male, ma lasciateli a terra.
Non mi interessa se schiatta qualcuno, ci penserà il mio socio a coprire tutto,
in ufficio. Mi dovete portare solo il prete. Vivo. A lui ci penso io”.
“Protocollo Signora di Shanghai!” ordinò Carabas.
Tutti i senzatetto balzarono in
piedi e si mossero, veloci, determinati, addestrati per fare quello che
dovevano. Carabas spiccò una corsa lungo la tavolata e poggiando un piede sulla
spalla di Giacomo balzò verso il secondo drone, lo afferrò con una mano e,
riatterrando, lo fracassò al suolo: “Ragazzi! Seguitemi, ma non intralciatemi.
Siamo preparati a questo, ma dovete assolutamente attenervi agli ordini: siamo
intesi?”.
Anna e Luca annuirono. Giacomo ebbe
invece un guizzo d'ingegno e armeggiò con lo smartphone, poi lo ripose nel
marsupio da collo insieme a I-guana.
I senzatetto, in un baleno,
afferrarono tutti i pannelli a specchio che nascondevano il tetto alla vista
della città, e li rivoltarono verso l'interno. In quella maniera, lo spazio si
moltiplicava all'infinito, confondendo le percezioni di chi vi ci si trovasse.
Poi calarono, celeri ma ordinati, tutti giù per la botola. Raf si sollevò in
volo, e cominciò a girare attorno al palazzo. Jake, Scolo e PM10 seguirono Luca
e Anna appresso a Carabas, ed entrarono in uno stanzotto, una specie di
intercapedine all'ultimo piano, nascosto tra la rampa delle scale e altre
stanze che dovevano essere state locali tecnici: agli occhi di Anna, Luca e
Giacomo balenò la particolarità di quello spazio, incastrato tra gli altri in
una maniera che, a dover immaginare di disegnare la piantina del piano, non si
sarebbe saputo dove metterlo. Pareva un vano inesistente, come l'interno della
borsa di Mary Poppins.
“Sembra la Stanza delle Necessità
di Hogwarts...” si stupì Anna.
“Eppure è qui!” le sorrise Luca.
Trenta ombre nere e violente si
inerpicarono su per le scale dell'edificio in rovina. Non erano addestrate a
fare quello che stavano facendo, e in effetti erano troppo rumorose per una
spedizione punitiva, ma erano abituate a fare del male, e se ne compiacevano, e
ciò le rendeva pericolose. I cani erano più in gamba di loro, ma non avevano
capito bene che dovessero fare. Litigavano tra loro, si ringhiavano. Un pitbull
vide passare, al secondo piano, un ratto, e si portò appresso tutto il branco
abbaiando uno scodinzolante: “Chi prende il topone è bravo!”.
Giacomo sfilò il telefono dal
marsupietto da collo: I-guana aveva aggiunto al suo post una foto, una bella
foto della città riflessa in mille specchi sul tetto di quel palazzo, e
l'avrebbe sicuramente reso più efficace. Carabas gli ordinò, brusco: “Hai
silenziato quell'affare? Da ora, nessuno deve parlare né fare il minimo
rumore!”.
Gualtiero e Fermo presero tre
pannelli a specchio, e li poggiarono davanti all'ingresso, inclinandoli in una
maniera particolare. Poi chiusero la porta. Notando lo sguardo incuriosito di
Luca, Carabas gli sussurrò: “Con quegli specchi, la porta scompare e sembra un
muro agli occhi di chi passa”.
“Ma non ci si riflette dentro?”
“No, è un trucco particolare per
cui il riflesso di chi vi cammina davanti compare quando ormai è già passato.
Se ne usciamo vivi, te lo insegno...”
Il manipolo di Giorgio era
determinato e feroce, ma non veloce. Tra un piano e l'altro, giunsero sul tetto
che erano passati quasi dieci minuti: erano guardinghi, e si facevano coraggio
tra loro con affermazioni spaccone e bestemmie. Giorgio, che li stava aspettando
al pianterreno, nel suo Ulysse, di modo che se fosse arrivata la polizia
avrebbe potuto svignarsela, stava cominciando a spazientirsi.
Le trenta ombre scure sfondarono
la porta delle scale che portavano al tetto, che era chiusa dall'esterno.
Infatti i nostri erano fuggiti per la botola, più scomoda ma meno visibile. E
quando i bravi di Giorgio emersero sul piano esterno, lo trovarono infinito,
sterminato. E vuoto. C'erano solo il tavolo apparecchiato, e l'orto in vaso, e
varie altre cose, ma persone, nessuna. Soltanto una cornacchia lasciò cadere
una grossa cacca sul cappuccio di uno dei picchiatori, che per tutta risposta
le scagliò appresso la sua mazza da baseball. La mazza atterrò contro uno
specchio, che si ruppe. Allora, in mancanza d'altro che potesse almeno
sanguinare, le ombre devastarono ogni cosa, ogni piantina, ogni libro, ogni
costruzione, e soprattutto ogni specchio. E ogni specchio sarebbe valso sette
anni di disgrazie.
Le genti di Carabas ascoltavano,
meste, la devastazione sopra le proprie teste, ma, obbedienti, non emisero un
lamento, né un sospiro. Si stringevano tra loro come chi sa che la propria vera
forza, la propria ricchezza, sta nell'altro.
Giorgio cominciò a indispettirsi:
i suoi sgherri non tornavano, il tempo passava, era arrivato un furgone di
panini con la salamella di seitan, e sembrava che la gente non avesse di meglio
da fare che radunarsi a chiacchierare nei giardini di piazzale Lugano, quella
sera.
Tutto era frantumato. Schegge di
vetro ferivano le zampe dei cani, che imprecavano contro i propri adorati padroni
per la loro stoltezza, pur continuando a scodinzolare. Non avevano trovato
nessuno, e quindi o i barboni se l'erano data a gambe, o erano da qualche altra
parte nel palazzo. Cominciarono a scendere.
Fu il pincher di uno spacciatore
a dire al dobermann che c'era qualcosa di strano: “Ehi, Zeus, non lo senti
anche tu? Eh? Eh?”
“Che cosa?”
“Quest'odore... lo conosco...
quando il Padrone mi porta sul fiume... lo conosco...”
“Sniff, sniff... hai
ragione. C'è puzza di topo di fiume. E viene da lì...”
I cani presero ad abbaiare contro
un muro. I loro padroni guardavano i cani, poi il muro, quindi di nuovo i cani,
e compresero che qualcosa doveva stare oltre quel muro.
Jake e Scolo sentirono PM10
sussurargli: “I cani. I cani ci sentono, col naso!”
“Mondoratto!” esclamò Jake.
“Vecchia lenza! Di’ a Luca che
dobbiamo uscire! In fretta!”
Jake accarezzò il polpaccio di
Luca, che si stringeva ad Anna. Si guardarono, Luca e Jake, mentre i cani fuori
abbaiavano. Si guardarono, e videro il proprio migliore amico, tutti e due. E
gli amici si comprendono senza parole. Luca disse, rivolgendosi a Carabas, il
bisbiglio nascosto dai latrati: “Fate uscire Bob e i suoi amici! I cani li
sentono... e sentono noi!”.
“E come, secondo te?”
“Aprite uno spiraglio della
porta! Ci sarà un tale trambusto che non s'accorgeranno di niente!”
Al baracchino delle salamelle di
seitan c'era un raduno di poliziotti americani. Giorgio sgranò gli occhi.
Com'era possibile che la polizia li avesse beccati e, soprattutto, quella
americana? Poi si guardò attorno. Ormai c'erano oltre cento persone, in divisa,
nella piazza, e ne stavano arrivando a fiumi. Tutti in divisa. Divise sexy con
la gonna cortissima e la scollatura generosa, divise trendy, divise anni Settanta,
divise cyborg... Poliziotti da ogni luogo e ogni epoca stavano venendo proprio
dove lui doveva chiudere i giochi col prete! Calò dall'Ulysse, sbattendo la
portiera, e si diresse verso una ragazza da cui chiunque avrebbe voluto farsi
ammanettare: “Ehi, tu! Si può sapere che cazzo sta succedendo?”.
“Ma come! Non lo sai? Giacomo
Belotti, l'Iguana Vegana, ha lanciato un flash mob! Un ritrovo non organizzato!
Proprio qui!”
“A me pare organizzato, invece! E
perché siete vestiti tutti da sbirro?”
“Ma come! Non lo sai? Il
dresscode era Police! Ma anche tu hai il distintivo… Dài, vieni a divertirti!”
“Ma va’ a cagare, stronza!”
“Scusa, cos’hai detto alla mia
ragazza?”
A parlare era stata una statua
greca alta circa due metri, con un basso a tracolla.
“E tu chi cavolo saresti?”
“Io sono Sting. E tu sei molto
sgarbato.”
E fu così che Giorgio, almeno un
cazzotto, quella sera lo prese. Perdendo un dente d'oro.
Jake, Scolo e PM10 guizzarono
fuori da uno spiraglio minuscolo, e non ebbero troppo tempo per pensare, perché
i cani gli furono addosso in un istante. Si misero a correre più veloce che potevano,
con i cani dietro e i loro padroni, spiazzati e immobili, ancora davanti alla
stanza nascosta. Quindi Scolo urlò: “Ora!” e tutte e tre le nutrie invertirono
la marcia, correndo incontro ai propri inseguitori. Il branco andò in
confusione, scivolò lungo il corridoio, inciampò su quelli che aveva davanti.
Le nutrie si infilarono tra le gambe dei picchiatori in felpa, che andarono in
rotta e vennero poi investiti dai propri cani. Non capivano più niente. Il
palazzo prese a riempirsi di musica e gente che rideva e ballava e
chiacchierava. Il party dell'Iguana Vegana era cominciato. La confusione si
fece totale. Le nutrie riuscivano solo a correre, senza guardarsi indietro,
senza fermarsi. Potevano sentire la schiuma idrofoba sui musi dei propri
inseguitori. Ogni tanto un cane abbandonava l'inseguimento, spiaccicandosi contro
qualcuno che ballava, distraendosi per una carezza o semplicemente per la
stanchezza. Quando le nutrie furono al pianterreno, non avevano più fiato, ma
nemmeno cani alle costole. Jake disse: “Ehi, Scolo, ce la siamo vista brutta
questa volta, eh?”.
Ma Scolo non c'era.
Giacomo prese l’iPhone e, con
orgoglio, mostrò ad Anna e a Luca la diretta Facebook in streaming sulla pagina
dell’Iguana Vegana. Sotto il palazzo in cui erano nascosti, proprio in quel
momento, c’era una folla variopinta e allegra… Sembrava una festa! I tre
ragazzi guardarono per un po’ quello spettacolo incredibile, e Giacomo spiegò:
“È stata una mia idea, sister. Ho coinvolto i miei followers per creare un po’
di movimento!”.
Poi Luca alzò gli occhi dallo
schermo e chiese: “Ma dove sono finiti tutti?”. Nello stanzino dove si erano
rifugiati con gli altri non c’era più nessuno, neanche il Malandato.
“Stiamo andando, Luca...”
Era Carabas, ed era appeso fuori
da un buco nel muro.
“E mio padre? Dov'è mio padre?”
“Al sicuro, Anna, al sicuro. Ma
per stare davvero al sicuro, nemmeno voi dovete sapere dove siamo. Avete visto
che è successo, no?”
“Ma chi erano, quelli?”
“Li ha mandati sicuramente quello
che voi conoscete come Giorgio.”
“Quellonuovo?” chiese sbigottito
Luca.
“Ma non è un poliziotto?” domandò
Anna.
“Il suo amico lo è, ma non
dovrebbe. È al soldo di brutta gente. E Giorgio pure. Lui usava Carcarlo come
cavallo dei suoi traffici. E ha ingannato anche voi. E vi ha pedinati. Per
questo, noi dobbiamo andare. Però ci rivedremo...”
“Come?”
Ma Carabas scomparve.
Anna corse verso il buco e trovò
soltanto un tubo di scarico macerie, che, con una serie di curve, convogliava
declinando dolcemente fin verso terra, come un lungo scivolo. Allo sbocco
finale, vide uscirne Carabas e correre verso i binari del treno.
“Dov'è! Dov'è Scolo?” gridò
disperato Jake.
“Non c'è bisogno di un veggente,
per immaginarlo...” rispose PM10.
“Ehi, vecchie lenze! Correte qui!
Ce n'è per tutti!” li invitò Scolo dal furgone delle salamelle di seitan,
immerso in una montagna di bottiglie di birra dai fondi ancora freschi, e
golosi.
Il flash mob Police di Iguana
Vegana fu un successo, quella sera. Accorsero più di ottomila persone da tutto
il Nord Italia. Quando, alle sei del mattino dopo, i festaioli in costume se
n'erano andati e la città aveva ripreso lentamente a lavorare, un netturbino
vide su una panchina un ragazzo con la barba che accarezzava una lucertola, tre
nutrie, una cornacchia, e un altro ragazzo che stringeva una ragazza
addormentata, che doveva aver pianto molto. Mentre cambiava il sacco a un
cestino, trovò a terra un dente d'oro. L'avrà perso qualcuno, pensò. La gente
cerca sempre quello che ha perso, e non s'accorge che così non trova quello che
la vita gli offre.
E la vita offre tanto.
Ogni giorno, uno spunto.
Epilogo
Nessuno si accorse che all'appello mancava Flambé. Quando
alla corte di Carabas giunsero i droni, e i piccioni si dileguarono, uno
spietato drappello di volatili afferrò il gatto che si dimenava fieramente, lo
portò più in alto che poté e lo lasciò cadere. Flambé portò con sé tre
piccioni. Cadde nei pressi dei binari del treno, là poco distante. Si ruppe
parecchie ossa, e si strappò un orecchio. Morì. La differenza tra un gatto e un
piccione, però, è che il gatto ha sette vite. Questa era la seconda che Flambé
si era giocato.
Don Giuliano non tornò in
parrocchia. Aveva trovato una nuova missione in cui operare, ed era una
missione molto vicina, ma ignota a tutti. Doveva escogitare qualcosa di inedito,
ma ci avrebbe pensato il tempo, a suggerirglielo. Intanto, avrebbe rimesso in
sesto Flambé, che aveva trovato in polpette durante la fuga lungo i binari.
I-guana, durante l’assalto delle forze speciali inviate da
Giorgio, si scattò un selfie con gli sgherri incappucciati sullo sfondo,
approfittando della confusione mentre le tre nutrie scappavano, e lo condivise
su Instagram. In due ore ottenne dodici milioni di like, un successo assoluto,
record dei record.
Giacomo ricevette il premio di Best Influencer dell’anno,
ottenne innumerevoli richieste di sponsorizzazioni, alcune molto prestigiose,
che però lui rifiutò. Decise di monetizzare creando invece un nuovo business,
com’era nella sua indole. Aprì una linea di abbigliamento che una volta si
sarebbe definito casual ma adesso si chiama streetwear, con T-shirt, cappellini
e shorts, altrimenti detti bermuda. L’immagine stilizzata scattata da I-guana
divenne il logo del brand, la scelta del nome invece ricadde su TreNutrie, di
cui soltanto in pochi conoscevano il vero significato.
Giorgio, dopo il suo fallimento, vagò per giorni per la
città, senza una meta. Lo si poteva riconoscere perché indossava una T-shirt
del famoso brand TreNutrie che gli era stata recapitata via posta in un pacco
anonimo.
Un bel giorno uno stormo di piccionotti in assetto di guerra
si mise a seguirlo dall’alto, alla loro testa il Tenente Colombo. Poco sopra di
loro volava Don Picciotto.
Il Tenente individuò Giorgio, poi volse un occhio a Don
Picciotto, che con un cenno del capo diede il suo assenso.
Fu allora che il Tenente Colombo ordinò: “Pronti per il
bombardamento!”.
Scolo, un pomeriggio, si avvicinò
a Raf che stava svuotando un cestino dell'immondizia. Le disse: “Raf! Devo parlarti
di una cosa”.
Raf si voltò e lo guardò: “Dimmi,
Scolo!”.
“Raf... io... io provo qualcosa,
per te. Io... io penso di amarti!”
“Ma Scolo... non possiamo!”
“Perché? Solo perché apparteniamo
a due specie diverse? Solo perché tu appartieni all'aria e io alla terra e
all'acqua? Solo perché tu hai piume nere e io pelo marrone? L'amore... l'amore
va oltre le differenze, Raf!”
“Certo, Scolo, ma... ma io mi
chiamo Raffaele! Sono una cornacchia maschio!”
Scolo la guardò, poi si strinse nelle
spallucce: “Beh... nessuno è perfetto!”.
E cozzò con i denti contro quel
becco enorme, perché i baci sono belli, ma a volte anche molto complicati.
PM10, alla fine di una divinazione molto molto diesel, ebbe la visione
di una nutria a zampe all’aria, morta, che veniva trasportata per la coda dalla
Grande Nutria. La svolta avvenne quando riconobbe se stesso nella pelliccia
maculata di quella tapina. Fu così che si convertì alle auto elettriche che
tanto aveva vituperato, e iniziò a mordere le scatolette delle centraline
elettroniche, sotto quelle macchinine, per sentire un brivido scorrergli per
tutto il corpo fino alla punta della coda.
Jake la Nutria, beh… Ve lo racconta lui anche stavolta.
Luca e Anna, cari i miei umani curiosi che vi state arrovellando le
meningi per sapere se sono andati oltre i loro sguardi languidi, hanno cominciato
a uscire insieme. Anna lo viene a trovare sul divano e lui alla sera ha
iniziato ad andare a dormire da lei. In camera sua e con la porta chiusa.
Luca sta lavorando per Giacomo, cura i siti web dei locali e del nuovo
brand TreNutrie.
Non va in ufficio, ma lavora dal divano. La tecnologia Wi-Fi è super,
dice ogni due per tre!
Anna sorride molto di più.
Io faccio il back-office sotto al ponte e vado con Luca e Anna
soprattutto quando s’incontrano con Giacomo. Vi devo dire che I-guana è molto,
molto simpatica…
Epilogo 2, la vendetta
Carabas scrutava l'orizzonte, e chiese al Malandato: “Hai
sciolto le funi?”.
“Sì”
“Sia-siamo pronti, Don...” intervenne Carcarlo.
“I pavoni e i pesci sono al sicuro!” aggiunse Fermo.
Carabas accarezzò il povero Flambé, acciambellatoglisi
attorno al collo, e ordinò, sorridendo e guardando lontano: “Allora andiamo: si
ricomincia!”.
FINE
TROVATE LA PRIMA PUNTATA DI STRASTORIE EXTRALARGE QUI:
http://www.strastorie.it/2018/03/strastorie-extralarge-lincipit_14.html
LA SECONDA QUI:
http://www.strastorie.it/2018/04/strastorie-extralarge-seconda-puntata.html
LA TERZA QUI:
http://www.strastorie.it/2018/04/strastorie-extralarge-terza-puntata.html
LA QUARTA QUI:
http://www.strastorie.it/2018/05/strastorie-extralarge-quarta-puntata.html
LA QUINTA QUI:
http://www.strastorie.it/2018/05/strastorie-extralarge-quinta-puntata.html
E QUI LE REGISTRAZIONI DEGLI INCONTRI E IL ROMANZO LETTO DAGLI AUTORI DA ASCOLTARE: https://www.spreaker.com/show/strastorie-extralarge
StraStorie ExtraLarge: un romanzo scritto attraverso l’interazione con i lettori
Un format di narrazione condivisa di Valeria Ravera
Con Riccardo Besola, Andrea B. Ferrari e Francesco Gallone
In collaborazione con la libreria Covo della Ladra - Ladra di Libri
Illustrazioni di Guendalina Ravazzoni
Musiche di Alessandro Arbuzzi
Incursioni di Oliviero Ponte Di Pino
Supporto tecnico di Giorgio Paolo Albani
Dal vivo: 21 marzo, 4 e 18 aprile, 9 e 23 maggio, 6 giugno 2018 (ore 19), al Binario 9 e ¾ della Libreria Covo della Ladra, Milano
Sul web: www.strastorie.it e facebook.com/strastorie
#strastorie #giallo #scrivere #guendalinaravazzoni #JakelaNutria #covodellaladra #Milano #Martesana #santanutria #olivieropdpgo #iguanavegana
Nessun commento:
Posta un commento