STRASTORIE EXTRALARGE
UN ROMANZO SCRITTO ATTRAVERSO L’INTERAZIONE CON I LETTORI DA RICCARDO BESOLA, ANDREA B. FERRARI E FRANCESCO GALLONE
Guendalina Ravazzoni, Rattorazzia |
Capitolo
10
In cui si gioca a fare la guerra
Il gatto saliva sinuoso, rasente ai muri, per le scale
diroccate della grande torre di cemento affacciata su via Melchiorre Gioia.
La sua coda, se ne avesse avuta una, sarebbe stata
dritta, all’erta, pronta a scattare. Il moncherino carbonizzato, ricucito alla
meglio alle sue terga, invece era immobile. Non lo sentiva più da quella volta
in cui l’inferno era venuto a morsicarglielo, e tutta la sua vita randagia
aveva preso una direzione precisa.
Il suo pelo rosso, per il quale gli era stato dato il
nome di Flambé, quasi un presagio delle fiamme che lo avevano menomato,
lasciava tracce del suo odore sulle pareti non ancora completamente bonificate
dall’amianto. Il gatto, incurante del pericolo e dei rumori sinistri della
struttura che si sgranchiva come se avesse vita propria, saliva imperterrito
verso il lezzo di nutria che doveva seguire. Qualcosa lo infastidiva, però. Così
si fermò, nascosto dietro a una porta, e tese l’orecchio. L’inconfondibile
ticchettio di unghie animali, tipico degli stabili abbandonati, lo inquietò. Si
nascose nella fessura della porta rimasta aperta e li vide passare.
Il suo compito, forse, sarebbe finito di lì a poco.
Erano circa una trentina e correvano per le scale
della torre Galfa guidati dai loro capi carismatici, le zampe posteriori
che scivolavano per la foga. L’onta andava lavata subito e con il sangue, non
c’erano dubbi. Quelle grosse nutrie avevano sconfinato. Avevano terrorizzato i
loro cugini. E, come se non bastassero queste gravissime violazioni degli
accordi di pace, avevano portato con loro anche una cornacchia, vero
spauracchio per i ratti milanesi.
I due condottieri che sbavavano alla testa del
drappello avevano ben presente cosa potessero fare a un roditore come loro con
quel becco nero e con i loro artigli mortiferi. Entrambi avevano visto
soccombere più di un amico sotto la morsa delle cornacchie e, ora che gliene si
presentava l’occasione, volevano vendetta. Erano armati fino alle code e quelle
nutrie avrebbero trovato pane per i loro incisivi.
Ci avrebbero lasciato le pellicce in quella stanza al
penultimo piano.
Raf, appollaiata sul binario dove un tempo scorrevano
le grandi finestre della torre Galfa, osservava ora Scolo, ora la città. Non
poteva dire di amarli entrambi allo stesso modo, ma i sentimenti che la
legavano alla grossa nutria e alla grande città erano, in un certo modo,
complementari. Raf sapeva che senza quello strano compagno tutto pelo e
dentoni, così dedito al raccatto di fondi di birra lungo la Martesana, niente
al suolo sarebbe stato importante per lei, al di fuori del cibo che le
discariche improvvisate degli umani le offrivano. La cornacchia si diceva anche
che non avrebbe mai potuto abbandonare le altezze di Milano, quella strana
colata di cemento, vetro e traffico, che le si apriva a perdita d’occhio ogni
qual volta si alzava in volo. Era, la città degli uomini, un luogo così
affascinante che Raf poteva stare ore a stancarsi le ali e tutti i muscoli per
ammirarla e per sentirne le correnti d’aria ora calde, ora gelide che la
sollevavano o la spingevano verso la periferia. Niente al mondo le avrebbe
fatto abbandonare la città, nonostante i numerosi pericoli che si celavano a
terra lontano dalla Martesana o dai parchi che, con sempre maggior fatica,
sopravvivevano all’idiozia degli umani. Dalla finestra Raf osservava il
grattacielo (nome presuntuoso che gli umani danno alle loro costruzioni,
altrettanto presuntuose, che al cielo fanno a malapena il solletico) con la
grande punta che continuava a lampeggiare di rosso per evitare che gli uccelli
d’acciaio (illusione tutta umana di essere liberi nell’aria) vi si
schiantassero contro. Loro, gli uccelli di piume e ossa, avevano dovuto
imparare a proprie spese come evitare i gorghi che si creavano in quella piazza
e come non sbattere contro le vetrate onnipresenti. Il mattino, che era stato
scuro e piovoso, stava velocemente cedendo il passo al pomeriggio e Raf sentiva
che alla loro ricerca fra le cose del Malandato mancava ancora qualcosa. Il rumore
del traffico raggiungeva la cornacchia e le nutrie, infastidendole e confondendo
il loro udito.
Scolo, complice il fatto che Jake si era infilato a
esplorare i cassetti della scrivania del Malandato, aveva approfittato della
pausa per far cascare dal ripiano della scrivania il cartone del vino e darsi
al suo vizio preferito. Il vino non era la sua bevanda prediletta perché niente
era come una Ruttaforte gelata, ma stanti l’ora, il freddo, e anche la mancanza
di pietanze poteva accontentarsi. La nutria, in realtà, era preoccupata e
cercava di non darlo a vedere spiando Raf di soppiatto. Scolo era geloso e
indispettito. Tutto il vino di quel fondo di cartone non gli avrebbe comunque fatto
andare giù il modo in cui Don Picciotto aveva guardato Raf. Quel piccione si
stava tacchinando la sua cornacchia e, nonostante fosse un piccione d’onore,
lui non poteva lasciargliela passare.
“Venite” disse Jake che spuntava a mezzobusto da un
cassetto “ho trovato qualcosa qui sul fondo.”
Flambé decise che la truppa dei ratti era troppo anche
per un gatto famelico come lui e prese dunque la rampa di scale che correva sul
lato della torre Galfa affacciato su via Galvani e, più in là, verso la
Stazione Centrale. Questa mossa gli avrebbe concesso di anticipare i ratti e di
mettersi comodo a osservare lo spettacolo nella stanza dove si erano rifugiate
le nutrie. Chissà se quelle maledette dentone se la sarebbero cavata anche
stavolta. Era da un po’ che le seguiva e doveva riconoscere che ci sapevano
fare, anche se era certo che né le nutrie né lo strano umano lo avessero mai
notato. Le aveva intercettate già in piazza Duomo, quando maldestramente erano
state braccate dagli umani in divisa, poi le aveva tallonate al parco Sempione.
Si era mimetizzato fra i gatti del Castello, era sgattaiolato alle loro
chiappette pellicciose fra i cunicoli e le aveva momentaneamente perse di vista
quando si erano imbattute nelle squadriglie guanose di Don Picciotto, il boss
di piazza Duomo. Ora, con tutti quei ratti alle loro code, chissà cosa si sarebbero
inventate. Era proprio curioso di scoprire se le nutrie potevano volare.
Quando mancava poco più di un piano per raggiungere la
stanza dove le nutrie e la cornacchia si erano accampate, proprio la stessa
dove aveva stazionato qualche giorno quello strano umano con il raffreddore e
l’occhio ballerino che farfugliava tutto il tempo fra sé e sé, il plotone
d’assalto dei ratti si fermò. I due capi si issarono sopra all’ultimo gradino
della rampa e, dall’ammezzato, iniziarono a impartire gli ordini ai loro
soldati.
Erano in due, ma si vedeva chiaramente che il capo era
quello con degli strani lembi di stoffa rossa attorcigliati intorno alla vita e
alle zampe posteriori. L’altro, un ratto gigantesco, aveva la pelliccia tutta
rovinata e quasi rasata a zero a causa di un’infinita sequenza di cicatrici che
ne solcavano il corpo. Lui era il braccio armato del capo e tutti lo
conoscevano come Rattoppato, il guerriero che non conosce la paura. I soldati
lo idolatravano e su di lui girava la leggenda che una notte, in una fogna
scura dalle parti di piazza della Repubblica, avesse sconfitto un pitbull da
oltre trenta chili che apparteneva a un giovane uomo con i capelli colorati di
viola e un sacco di pezzi di ferro attaccati al muso. Rattoppato squittì un verso
animalesco, quasi umano, e placò la sete di sangue dei suoi compagni,
consentendo al loro generale di parlare.
“Soldati” disse con voce intonata all’uopo “quanto è
vero che mi chiamo Rattolomeo di Bari…” il ratto fece una pausa piuttosto lunga
come aveva sentito fare a suo nonno Nicola, che era emigrato al nord in cerca
di fortuna, infrattato in un camion di meloni gialli “… oggi faremo la
pelliccia a quelle nutrie e soprattutto alla orribile cornacchia. Noi siamo i
padroni di questa torre da prima che andasse in rovina, secondo quando ci
raccontano le nostre cronache. Eravamo qui quando ai soffitti c’erano le luci e
non colava tutta quest’acqua rugginosa e acida che ci corrode le budella. E,
ora che gli uomini hanno ripreso a lavorarci, per riportarla ai fasti di un
tempo, non possiamo farci sconfiggere da due nutrie e una cornacchia.
Armiamoci! Riscattiamo l’onore dei nostri cugini topolini e riaffermiamo la
nostra supremazia sulla torre Galfa. L’armistizio stipulato al parco Sempione
dai nostri parenti è dichiarato nullo, almeno per il nostro territorio. Avanti
miei (p)roditori!” Lo squittio unanime risuonò per i corridoi del piano come un
lugubre presagio di nefandezze, poi i ratti iniziarono la vestizione per la
battaglia.
“Vecchia lenza di un Jake, sempre detto che dovevi
fare il segugio e non la nutria da compagnia” disse Scolo prima che uno strano
rumore proveniente dai piani inferiori gli facesse rizzare tutto il pelo dalla
coda alla collottola.
“Cos’è stato?”
“Non so Scolo, sarà il vento o il chiasso della strada
qui sotto che giocano a nascondino fra le scale di questo cantiere maledetto”
disse Jake snutriando fuori dal cassetto e proseguì, eccitato per la scoperta:
“Guardate questo.”
Jake trascinò con sé un altro disco come quelli sparsi
sul pavimento che, inspiegabilmente, il Malandato o chi per lui aveva
infrattato nella scrivania, invece di abbandonarlo per terra.
Raf, alle loro spalle, girava la testa a destra e
sinistra in modo da permettere ai propri occhi di abituarsi a quella strana visione,
ma senza troppo successo.
“Aprilo” intimò Scolo a Jake dandogli una zampata
sulla collottola.
“Al tempo, Scolo, guardiamo prima la foto sulla
copertina.”
“Perché?” gracchiò Raf, che a curiosità era seconda
solo a sua cugina, la gazza ladra.
“Perché Luca fa sempre così. Quando siamo sul divano
lui guarda le copertine, si chiamano così, e solo dopo un po’ che le ha studiate
inizia a raccontarmi la storia.”
In quel momento Jake si rese conto di quanto gli
mancasse il suo amico e un moto di gelosia verso Anna, la figlia del Malandato,
gli avvampò il muso e tutte le vibrisse. Proprio come avrebbe fatto Luca, Jake
si accovacciò davanti alla copertina e, seguito a ruota da Scolo e Raf, iniziò
a osservarla in religioso silenzio.
Al piano in cui l’odore delle nutrie era così forte da
dargli il voltastomaco, Flambé decise che se i ratti avessero fatto la
pelliccia a quei due roditori dentoni lui avrebbe sfruttato la cosa per il suo
personalissimo scopo che differiva, in vero, da quello molto più nobile di colui
che si reputava il suo padrone.
Alla sua collezione di code ne mancava una di nutria.
I ratti avevano tutti degli strani segni sui musi,
imbrattati di fango rappreso e fresco che disegnavano dei contorni minacciosi
attorno agli occhi e sopra le orecchie. Avevano avvolto le zampe anteriori e le
teste con drappi di stoffa a macchie verdi e nere rotolata giù da un camion
tempo prima e, almeno la metà di loro avevano infilato le code rosacee dentro
delle minuscole bottiglie di birra, anch’esse verdi, scolate dagli ultimi
operai che avevano frequentato la torre Galfa alla fine dell’estate. Le
tenevano in bilico mentre salivano le scale per evitare di fare rumore e,
giungendo al piano dove si trovavano Jake e Scolo, si prepararono all’attacco.
I ratti stavano facendo delle manovre che Flambé non
comprendeva, ma d’altronde quei roditori infami erano fra le bestie più
mimetiche che la Natura si fosse fatta sfuggire di mano. Nonostante le loro
testoline fossero così piccole e i loro occhietti così inespressivi, imparavano
alla svelta come sopravvivere in qualsiasi luogo e riuscivano con quelle code
schifose a fare cose che nemmeno le scimmie erano in grado di immaginare.
D’altronde, pensava Flambé sgattaiolando di fronte alla porta della stanza
delle nutrie, quella storia del pollice opponibile come mezzo universale in
grado di far dominare una specie sopra tutte le altre era una credenza
sopravvalutata raccontata solo dalle scimmie e dagli umani.
Il vento, dentro la stanza che era stata il rifugio
temporaneo del Malandato, stava iniziando a mischiare tutte le carte sul
pavimento e sulla scrivania. Il neon mezzo staccato che traballava cieco dal
soffitto sembrava un pendolo idrofobo che aveva smarrito il senno ed era in
balia di una personalissima danza sgraziata.
Raf provò a chiudere la vetrata a colpi di becco, ma
era bloccata irrimediabilmente, così tornò a osservare la copertina di
quell’oggetto.
Dovetti spremermi tutte le meningi e anche le riserve
di grasso sul di dietro che avevo puntigliosamente accumulato in vista
dell’inverno per provare a schiarirmi le idee, ma non ci riuscii. Non era
importante fare come Luca per poter raccontare le storie delle copertine,
bisognava essere come Luca, così
decisi di condividere i miei dubbi con i miei amici:
“Compagni, dobbiamo trovare una spiegazione a questo
disegno.”
“Cra, cra, ma forse la spiegazione è dentro.”
“Sì, Jake, come con le bottiglie di Ruttaforte. Fuori
cambia il colore, ma è dentro che c’è il segreto di tutto.”
“Certo, certo, ma il fuori è importante per gli umani,
ne sono certo. Dunque, secondo voi perché il Malandato aveva infrattato proprio
questa copertina qui, tutta nera, con sopra il raggio bianco che passa dentro
un coso di vetro e dall’altro lato vengono fuori tutti i colori
dell’arcobaleno? È uguale a quello che spunta in fondo alla Martesana dopo le
piogge estive.”
“Cra,
guardiamo dentro!”
“Fatto, Raf!”
“Aspetta, Scolo…”
Il disco era tutto nero, con un buco nel centro come
tutti gli altri. Qua e là c’erano dei buchini che ricordavano quelli sgranocchiati
dai topolini, ma qualcosa non tornava.
I ratti erano ormai schierati a pochi metri dalla
stanza delle nutrie. Quelli con le piccole bottiglie verdi infilate nelle code
davanti, e gli altri tutti dietro.
Flambé fece appena in tempo a sgattaiolare fuori dalla
portata del manipolo dei roditori armati, ma per non rischiare di perdere anche
il suo mozzicone di coda fu costretto a passare fulmineo davanti alla porta
della stanza.
“Cra, cra. I buchini sono diversi.”
“Come fai a dirlo?”
“A volte le cornacchie hanno l’occhio di falco, Jake.”
“Quindi, Scolo, secondo te ha ragione lei?”
Jake prese il disco fra le zampe, poi ne acchiappò un
altro, mezzo infilato in una copertina con un umano folgorato dalla corrente
elettrica, e constatò che i morsi dei topolini erano diversi. Poco precisi e
con i bordi frastagliati… I buchini sul disco conservato dal Malandato erano
molto più regolari. Raf aveva ragione.
“Jake?”
“Dimmi, Scolo.”
“Mi è sembrato di vedere un gatto.”
“Cra, cra. Ratto? Hai detto ratto?”
I trenta ratti comparvero immediatamente alle spalle
di Rattolomeo e Rattoppato, quelli con le bottiglie sulle code davanti e quelli
senza dietro. I ratti senza bottiglie facevano tintinnare ritmicamente con i loro
dentini quelle sulle code dei loro sodali. TIC,
TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC.
“Nutrieee…” rattò Rattolomeo, spalleggiato da
Rattoppato “giochiamo a fare la guerraaa…? Nutrieee… giochiamo a fare la
guerraaa…? TIC, TITIC, TITIC, TITIC. “Nutrieee…
giochiamo a fare la guerraaa…? Adesso vi spacchiamo la pellicciaaa…”
Jake e Scolo, due nutrie dritte e che sapevano farsi
rispettare, capirono subito che sarebbero finiti a raccontare la propria storia
alla Grande Nutria, e reagirono in maniera diversa.
Raf ebbe appena il tempo di alzarsi in volo e coprire
con le sue ali nere i corpi dei suoi amici.
Jake, che era il più intelligente e riflessivo, provò
a spingere con un colpo di coda il disco segreto del Malandato sotto alla
scrivania, nell’ultimo tentativo di preservare quel mistero per Luca e Anna,
che forse avrebbero provato a rintracciare il vecchio pirata.
Scolo invece partì a razzo contro Rattolomeo,
squittendo qualcosa di incomprensibile in modo così roco da sembrare un
gracchio di Raf.
Le quindici code lanciarono le quindici bottigliette
verdi con una violenza tale da farle sembrare dei proiettili.
Raf con le ali protesse Jake, ma non Scolo che aveva
anticipato il movimento dei ratti e ormai era a pochi centimetri dal collo di
Rattolomeo, gli incisivi gialli luccicanti odio. Stava già assaporando il gusto
del sangue e della pelliccia di ratto, quando qualcosa di poderoso mise fine
alla sua furia.
Rattoppato lo intercettò con le sue potenti zampe
posteriori e, nonostante Scolo fosse più grosso, grazie a una tecnica imparata
spiando gli umani in una palestra vicino a Piazzale Loreto, lo afferrò con le
zampe anteriori, lo capovolse sfruttando la sua stessa forza e gli assestò un
morso alla coscia destra, arrivando quasi a sentire i tendini. Poi lo scagliò
di nuovo verso l’altra nutria e la cornacchia.
Jake, a quel punto, poco prima che tutti e trenta i
ratti gli piombassero addosso, decise di utilizzare le sue zampine posteriori
per tirare quanti più dischi possibili verso di loro. Individuò un mucchio
consistente e iniziò a spararli come lame rotanti.
I primi tre fecero cilecca, gli altri tagliarono il
fiato ad altrettanti ratti, ma era una lotta impari.
Raf si alzò in volo e si buttò verso la finestra
aperta.
Scolo, dolorante e sanguinante, la guardò fuggire e si
sentì abbandonato per sempre.
Raf rientrò come un proiettile e conficcò il becco
nero nell’occhio di Rattolomeo.
Rattoppato, preso alla sprovvista dalla velocità della
cornacchia, si avventò sull’uccellaccio con un morso a caso e rimase con tre
piume nere fra gli incisivi.
Rattolomeo gridava e girava su se stesso come un
ossesso, ma i ratti del plotone continuavano a gettarsi contro Jake
graffiandolo e morsicandolo. Scolo era ferito più gravemente, quindi lo
avrebbero finito dopo.
Il frullo d’ali che entrò con la forza dirompente di
una tempesta ricordò a Jake quello di un’altra memorabile battaglia della sua
vita. La Grande Nutria doveva aspettare.
Il tenente Colombo e i suoi intercettori si lavorarono
di becco tutti i ratti, forti del fatto di essere in numero superiore.
Beccarono, artigliarono e scagazzarono così
copiosamente i ratti allo sbando che li costrinsero a una disordinata ritirata.
“Ci rivedremo!” disse Rattolomeo, pentendosi
amaramente di quella battutaccia involontaria.
Scolo, ormai quasi svenuto, guardò Raf con occhi
lucidi per il dolore e perse i sensi quando la cornacchia se lo caricò fra gli
artigli e volò fuori.
Don Picciotto era appiccionato su un vassoio
d’argento, sorretto da sei piccionotti in moto perpetuo. Indicò Jake la Nutria
e gli lasciò il suo posto sul vassoio. Jake salì, portandosi il disco del
Malandato e la copia della mappa che aveva anche Luca. Il Malandato doveva
averne fatte molte, e tutte uguali. Chissà cosa significavano.
“Grazie, Don Picciotto, siamo in debito.”
“Certo”
rispose il pennuto. Jake però si era reso conto che era piuttosto strano che i piccionotti
sapessero che lui, Scolo e Raf stessero per lasciarci rispettivamente pellicce
e piumaggio. Poi osò: “Don Picciotto, con rispetto, ma ci facevate seguire?”.
“Eh, certo. Io ho fatto un investimento aiutando la cornacchia
e se l’investimento muore, mi dici dove se ne va la mia convenienza? I
picciuttunazzi sono stati avvisati non appena i ratti hanno principiato a
salire le scale. Ora però andiamocene, perché quelli torneranno. Lascerò
qualcuno dei miei a pattugliare, ma fra poco arriverà il guardiano notturno e
gli faremo capire che qui c’è bisogno di una derattizzazione.”
“Dove andiamo?”
“Andiamo a riposare sulla terrazza della Grande Punta,
lassù, vicino al campo di grano. Poi, stanotte, faremo visita all’oracolo della
Grande Punta. È un uccello del malaugurio, ma ci vede lontano.”
Capitolo 11
In cui qualcuno snutria nel nido del
cuculo
Qualche
ago di pioggia punse l'espressione severa di Anna. Giorgio scambiò uno sguardo
d'intesa con l'uomo che lo accompagnava, Luca era stupefatto da quell'incontro.
“Piove.
Luca, signorina... se vi va, potremmo proseguire questa conversazione sul
nostro furgone, all'asciutto.”
“Abbiamo
anche un thermos di caffè, e uno di tè” brontolò il compagno di Giorgio.
Luca
e Anna valutarono la proposta, ma fu lei a decidere: “Va bene. Così ci
spiegherete chi siete e cosa sapete su mio padre”.
Era
un Fiat Ulysse nero, con i vetri oscurati, vecchio ma tirato a lucido. Quando
montarono, Luca e Anna notarono che le due file di sedili posteriori erano
state girate a mo' di salottino, e che l'interno del mezzo era vissuto, ma
ordinato: una valigia aperta, con dei vestiti piegati con grazia all'interno;
fogli e documenti impilati dentro vaschette di plastica; una macchina
fotografica con teleobiettivo; due grosse tazze, una recitava “Il Mattino ha l'Orzo in bocca” e
sull'altra, semplicemente, Lupo Alberto celebrava il papà migliore del mondo
assieme a Enrico La Talpa.
“Scusate
il disordine, ma questo è il nostro ufficio...”
“Siete
poliziotti?” chiese Anna.
“Di
un genere un po' particolare... Diciamo che di mestiere cerchiamo persone,
risolviamo situazioni. Al momento, stiamo indagando sulla scomparsa dei
barboni, appunto...”
“Mio
padre... mio padre non è l'unico?”
“No”
rispose Luca. Tutti si voltarono a guardarlo.
“Te
n'eri accorto, Luca?”
“Sì,
Giorgio. Da qualche mese, qualcuno dei nostri sparisce all'improvviso, e
nessuno ci fa caso. Alcuni si spostano, perché comincia a far freddo, come le
rondini. È normale. E poi per strada ci sono quelli che non sono come noi...”
“Cosa
intendi?” chiese Anna.
“Credo
che si riferisca...” rispose Giorgio “… agli stranieri, agli immigrati. Per
strada ci sono loro, i barboni...”
“Non
li chiami barboni. È dispregiativo.”
“Dispregiativo
è far finta che non esistano, non il termine con cui li chiamiamo” sentenziò il
compagno di Giorgio.
“Grazie...
ma non voglio offenderla, signorina. Per strada ci sono i clochard, che l'hanno
scelta a dimora, e quelli che i giornalisti chiamano migranti, che sono lì di
passaggio. La maggior parte, perlomeno. I barb... i clochard sono radicati nel
tessuto urbano, e quindi è usuale vederli circolare sempre nelle stesse zone,
sempre negli stessi periodi. I migranti invece compongono un via vai, un flusso
in divenire. In questa faccenda delle sparizioni, i migranti hanno confuso un
po' le carte, diciamo...”
“Capisco.
E voi come fate a essere certi che questi senzatetto siano spariti?”
“Perché,
in qualche maniera, è come se fossero censiti. Nelle associazioni che se ne
occupano, nelle mense, nei dormitori, qualche volontario ha notato l'assenza di
uno di loro che gli stava particolarmente simpatico, o antipatico, e l'ha
segnalata. Solo che queste segnalazioni sono diventate sempre meno sporadiche,
fino a divenire costanti. Ed è stato allora, che siamo entrati in ballo noi.”
“Avete
dei sospetti?”
“Non
abbiamo la benché minima idea di che fine abbiano potuto fare. Niente. Abbiamo
pensato all'omicida seriale, alle industrie farmaceutiche che potrebbero usarli
come cavie, ai nazisti, agli alieni, abbiamo pensato che potessero esistere
fessure nella città che li ingoino... ma non troviamo una traccia. Non una. Suo
padre, il Malandato, è l'ultimo della serie, e siamo venuti a cercare Fermo
perché abbiamo scoperto che si frequentavano... ma ora anche Fermo si è dato
alla macchia. Certo che...”
La
frase rimase sospesa nell'aria. La pioviggine isolava l'abitacolo dal mondo
esterno, deformandolo attraverso i vetri. Anna attese, poi non resistette:
“Certo che?”.
Giorgio
scambiò di nuovo uno sguardo col suo compagno: “Certo che voi potreste esserci
molto utili. Luca è un barb... un clochard, e conosceva il Malandato, lei è sua
figlia: voi sapete quali fossero le sue abitudini, i suoi giri, i suoi
contatti. Per voi, seguirne le tracce potrebbe essere più semplice... e poi noi
siamo soltanto due, e comincia a essere difficile stare dietro a tutto, e a
tutti...”
“E
cosa potremmo fare?”
Tra
le dita di Giorgio comparve un biglietto, con sopra un numero: “Questo è il mio
telefono: innanzitutto potete tenerci informati, e poi potremmo condividere le
informazioni. Per esempio, potreste provare a risentire Carcarlo, l'uomo che ha
prestato il libro al Malandato...”
“L'hanno
portato via” li informò Luca in tono grave.
“Certo,
lo sappiamo. Gli hanno rifilato un trattamento sanitario obbligatorio all'ospedale
di Niguarda. Se vi accompagnassimo là, potreste provare a risentirlo. Magari
con voi si sbottonerebbe un po' di più...”
Li
lasciarono sulla piazza bagnata antistante l'ingresso dell'ospedale. Luca e Anna
attraversarono sotto lo sguardo delle statue di San Carlo Borromeo e degli
Sforza, e oltre l'ingresso si diressero verso il reparto di psichiatria. L'ospedale
Ca' Granda, una miscellanea di strutture antiche e moderne, tutte bianche nel
grigiore di quella giornata, era accogliente, a suo modo, con i suoi viali
verdi e la sua quiete tipica: ogni padiglione era accessibile, i più vecchi
erano collegati tra loro da un camminamento coperto, e il tranquillo via vai di
persone rifluiva dappertutto, tranne che nel reparto di psichiatria. Là, una
porta chiusa elettronicamente impediva a chiunque di entrare o uscire senza
controllo, soprattutto ai degenti di uscire, ma non si creda, anche agli
esterni di entrare. Un infermiere stava in guardiola, a vigilare, e da una
finestrella si poteva scrutare il reparto, che pareva come tutti gli altri ma
non lo era, evidentemente. Luca era molto preoccupato: in quelle strutture
spesso lo consideravano oggetto di studio, e da luoghi simili, nella vita, era
sempre scappato. Meglio un divano sulla Martesana, per uno come lui. Anna,
senza remore, suonò il campanello. L'infermiere fece scattare la serratura, ma
uscì di persona a parlare con quei due visitatori, gettando uno sguardo
sospettoso a Luca e ai suoi vestiti.
“Desiderano?”
“Siamo
qui per visitare un amico... sarebbe mio padre, a dire il vero...” azzardò
Anna.
Luca
strabuzzò gli occhi: “Ma tuo papà non è il Malandato?”.
“Il
Malandato è il marito di mia madre, Luca... ma mio padre è Carcarlo. Era
l'amante di mia madre!” improvvisò goffamente Anna.
“Beh,
allora, signorina, faccia internare anche sua madre. Comunque, Carcarlo non
c'è.”
“Non
c'è? Ma ci hanno detto che è ricoverato qui!”
“Infatti,
è ricoverato qui, purtroppo. Ma il primario, sant'uomo, lo lascia andare in
giro liberamente. Non è pericoloso per il prossimo, a parte quel suo vizio di
parlare continuamente dei suoi libri, di quelli che ha perso, di quelli che gli
hanno rubato... e poi balbetta. Non lo sopportava più nessuno, qua dentro. Oggi
credo che sia a chirurgia oncologica, a mettere in ordine la biblioteca della
saletta comune.”
“Grazie!”
“A
non rivederci.”
E
fu lì, che lo trovarono. Ripulito, sbarbato, in camice azzurro, Carcarlo stava
inginocchiato davanti alla piccola libreria della sala in cui parenti e degenti
stavano ancora conversando, durante l'orario delle visite. Carcarlo
bisbigliava, parlava da solo, rifletteva sull'ordine dei libri che gli
passavano tra le mani, e accanto aveva una valigia, anch'essa colma di libri.
Gli scaffali erano stati vuotati, puliti e riempiti di nuovo, e i libri erano
stati disposti per genere prima, e per autore poi. Carcarlo li coccolava come
fossero cuccioli, come fossero una muta di cani di razza, come fossero pargoli.
“Ciao,
Carcarlo...” esordì Luca.
“Ciao,
Lu-Luca, ciao, ciao...”
“Buongiorno,
signor Carcarlo”
“Bu-buongiorno,
signorina...”
Carcarlo, però, non distoglieva lo sguardo dai suoi libri. A terra, ne aveva una pila,
e quella sembrava convogliare tutta la sua attenzione.
“Sono
la figlia del Malandato...”
Carcarlo
si arrestò: “Mal... Mal... Maledetto! I miei Mis... Miserabili! C'era la
storia, c'erano i luoghi, c'era la lettera... tutto è per-perduto, tutto!”
“Che
cosa intende?”
“Il
Malandato sa-sapeva. Lo sa-sapeva, c'era anche lui. Sapeva quanto va-valeva,
per me, quel libro. Rubarlo... che vigliaccata! Infame! Infame!”
“Ma
perché tiene tanto a quel libro?”
Carcarlo
ammutolì, sbalordito, e guardò Anna come se avesse fatto la domanda più banale
e ovvia e assurda che potesse: “Ma per-perché è uno dei miei!”.
Anna
arrossì. Quasi si vergognava, sì, era evidente. Era uno dei suoi libri, e lui
ci teneva. Anche lei teneva alle sue cose. E pure suo padre, il Malandato,
teneva ai propri libri e ai propri dischi. Poi, chissà come le venne, chiese:
“E quali sono, gli altri suoi libri?”.
Carcarlo
sorrise, raggiante, dischiuse la valigia, e cominciò a impilarli, uno
sull'altro, nominandoli senza balbettare: “Il
conte di Montecristo, di Dumas! Il visconte
dimezzato, di Calvino! Il barone di Münchhausen,
di Raspe! Il barone rampante, di
Calvino! Umiliati e offesi, di
Dostoevskij! Cronache da Nessundove,
di William Morris! Il padrone del mondo, di
Verne! Il gatto con gli stivali, di
Straparola...”
Anna
osservò i volumi che l'uomo estraeva dal suo bagaglio: erano tutte vecchie
edizioni, tranne quella de Il gatto con
gli stivali, che era moderna, illustrata, per bambini, e stonava con tutto
il resto. Fece una foto col cellulare alle coste dei libri impilati.
“Ma
Carcarlo, perché avrebbe dovuto rubare il libro a te?” chiese Luca.
“Per-perché?
Per ru-rubarmi il po-posto! Anche al re-refettorio, si sedeva se-sempre al mio
po-posto! L'ha fa-fatto di nuovo!”
Carcarlo
si innervosì. Il risentimento gli corrugava la fronte e gli zigomi, prodotto da
autentica disperazione.
“Ma
perché?”
“Perché?
Perché? Perché è sparito lui e non io? Perché? Glielo chiederò, perché! Glielo
chiederò! Lui è arrivato dopo di me! Perché?”
Anna
tentò di calmarlo: “Carcarlo, non si agiti, noi non sappiamo niente, ci
spieghi...”.
“Non
c'è niente da spiegare. Non se ne pu-può parlare. Però potete cercare. Tra le
mie cose. Don-Don Giuliano sapeva. Gliel'avevo detto che potevo sparire. Tutti
possiamo sparire. Io sono già spa-sparito una volta, posso rifarlo. Gli ho
detto, Don, se sparisco, e volete trovarmi, solo lei, Don, solo lei, nessun
altro... guardi dentro questa scatola. La mia scatola. Ce l'ha Don Giuliano.
Portategli questo...”
Era
una copia sgualcita del Barone rampante,
recante un piccolo stemma sulla prima pagina, un ex libris.
“Ma
Carcarlo... ci dà un libro?”
“Ne
ho tre, di quello. C'è il mio ex libris. Datelo al Don. Chiedetegli la mia
scatola. È tutto lì. Anche il Malandato aveva capito. Solo io non riesco a
capire... non riesco a capire perché sono ancora qui!”
La
chiesa di San Martino, a Greco, non dista poi tanto dal Ca' Granda. Conoscendo
le strade, può essere addirittura una gradevole passeggiata. Ci si infila in
via Pianell, in via Comune Antico, si oltrepassano i binari e il cimitero, e ci
si accorge di essere già arrivati. Quella passeggiata fu per Anna, che seguiva
il passo sicuro di Luca, una piccola scoperta. Tante piccole scoperte.
Innanzitutto, in tutto il trambusto di quella lunga mattinata, Anna non aveva
ancora avuto modo di conoscere quel ragazzo. E di primo acchito, non
avrebbe mai pensato che potesse essere lui, a guidarla, nemmeno per strada.
Perché in fondo anche lei s'era fatta subito un'opinione di Luca, e
quell'opinione era sbagliata, parziale, superficiale. Eppure, Luca aveva notato
che suo padre non era l'unico senzatetto sparito, e aveva intuito che in fin
dei conti il Malandato non avrebbe avuto motivo di rubare un semplice libro a
Carcarlo. Inoltre, sembrava in gamba, nel suo ambiente: Luca si orientava
benissimo per stradine che Anna non immaginava nemmeno esistessero, sapeva
muoversi al riparo della pioggia seguendo quello che in gergo si definisce “l'ombrello dei cani randagi”, camminando
rasente ai palazzi, o sotto i portici, avvertiva i pericoli del traffico,
salutava delle persone come se fossero dei monumenti, come se fossero fisse su
quell'angolo o quel portone. E quelle persone lo salutavano di rimando, col
rispetto che si concede al vicino di casa, quasi che Luca non fosse un
senzatetto. Luca parlava poco, ma sempre adeguatamente. Anna gli poneva delle
domande, e dopo aver riflettuto, magari pure per qualche minuto, lui
rispondeva, educato. In effetti, anche suo padre era stato un'eminenza
accademica, un florido imprenditore, e ora era un semplice barbone. Chissà
quante storie si nascondevano dietro quelle persone, si chiese. Poi, salendo
sul ponte pedonale che attraversa la ferrovia a metà di via Comune Antico, Luca
si volse a tenderle la mano, per superare dei gradini pericolanti, e Anna lo
vide. Era nascosto, molto bene, ma non abbastanza per il suo occhio attento.
Era là, mascherato, al riparo dalla pioggia e dalle ostilità, dalle assenze e
dalle futilità. Era giovane, e determinato, e sicuro di sé, era pulito ma
appariva sporco, era elegante ma sembrava trasandato, era bello ma non voleva
risultarlo troppo, era intelligente, tanto da preferire sembrare stupido. Le
porgeva la mano, e sbucò per un attimo fuggevole in un'espressione, in uno
sguardo. Era dentro Luca, e se ne stava nascosto, perché il mondo l'aveva
schiacciato, travolto, e l'unico rifugio l'aveva trovato là dentro.
E
mentre Anna osservava la sua guida con quello sguardo nuovo, all'ospedale di
Niguarda nessuno riusciva più a trovare Carcarlo. Puff: sparito!
A
quell'ora, le nutrie avevano già giocato alla guerra e si stavano leccando le
ferite, stremate. Luca giunse davanti alla chiesa, il Refettorio stava
chiudendo, e chiese di don Giuliano. Don Giuliano stava assaggiando del vino
novello con certi fedeli che lo portavano dal piacentino, ma fu felice di
vedere Luca, in compagnia di una ragazza normale, poi!
“Ciao,
Luca!”
“Buongiorno,
Don.”
“Vedo
che sei in compagnia...”
“Già.
Lei è Anna, la figlia del Malandato.”
Se
possibile, l'umore aureo sorretto da una fede ferrea del parroco si adombrò:
“Oh... signorina... mi dispiace per suo papà...”.
“Perché?”
chiese Anna.
Don
Giuliano rimase spiazzato: in effetti, di cosa si dispiaceva, nello specifico?
Che fosse un barbone, o che fosse sparito? Ma Luca, fortunatamente, non
tergiversò: “Don, Carcarlo ci ha detto che hai una sua scatola, e che quella
scatola serve a noi. Questo libro è il nostro lasciapassare.”
Don
Giuliano osservò il volumetto, lo rigirò tra le dita, riconobbe il timbro con
cui Carcarlo marchiava tutti i volumi della biblioteca che teneva in un
carrello del supermercato rubato quando c'erano ancora le lire, e rispose:
“Venite con me”.
Nella
sagrestia non c'era nessuno, e c'era odore di incenso. Da una scrivania il
parroco estrasse una scatola di latta, e sulla scatola, tra ammaccature e
ruggine, emergevano il sottomarino Nautilus e il suo capitano, Nemo. La porse a
Luca, che la passò ad Anna. Anna sollevò il coperchio, e dentro c'era soltanto
una videocassetta, vecchia, vecchia forte. Sull'etichetta, con un pennarello, a
mano, qualcuno aveva scritto: Laputa.
Salutarono
don Giuliano, ringraziandolo calorosamente. Lui ricambiò con altrettanto
calore, ma pure con la premura di tornare all'assaggio del vino novello. Mentre
andavano via, aggiunse solo: “Buona fortuna, ragazzi. E non si preoccupi,
signorina, è in ottime mani.”
Anna
annuì, e riprese a camminare. Luca non sapeva che farsene, di una videocassetta
registrata, senza copertina. Ormai, i lettori di VHS non si trovavano più
nemmeno nelle biblioteche, e quello dell'oratorio aveva divorato, nel suo
commiato suicida, Il pranzo di Babette.
“Mi
dispiace, Anna... non so come vederla! Non ha nemmeno la copertina...”
“A
che ti serve la copertina?”
“A
vedere il film!”
“Come?
Non ti preoccupare, Luca. Mio fratello è un hipster. Te lo presenterò. È un
appassionato di oggetti e tecnologie vintage: pensa che nei suoi locali mette
ancora la musica con i dischi in vinile! Ora lo chiamo, un videoregistratore ce
l'ha di sicuro.”
Era
vero. Giacomo Belotti aveva una saletta con una parete sgombera, su cui
proiettava le videocassette sfarfallanti dal suo vecchio videoregistratore. A
quell'ora, stava facendo il pisolino, prima di andare ad aprire i suoi locali.
Lo smartphone era nel terrario, con I-Guana.
Fu lei a rispondere con un pollicione al messaggio di
Anna che chiedeva: “Posso passare da
te con un amico?”.
Capitolo 12
In
cui facciamo una scoperta straordinaria
Don
Picciotto era uno che ci sapeva fare, doveva ammetterlo.
Raf
la cornacchia lo pensava mentre osservava le luci notturne di Milano che si
agitavano sotto di lei in rivoli luminosi sempre più deboli, perché le ore
degli umani si stavano facendo molto piccole e tutto si faceva fermo e buio.
Erano sistemati comodamente in uno dei tanti rifugi cittadini che i piccioni
avevano ricavato sul tetto di uno dei palazzi vicini alla Grande Punta. Raf
ripensava alla violenta battaglia scatenata dai topi, alla ricerca del
Malandato, all’occhio di vetro ritrovato, al significato della misteriosa
mappa. Poi pensava a Scolo, che era stato ferito da quei brutti topacci e
chissà se e quando si sarebbe ripreso. Ci teneva così tanto a lui… per questo
lo stava aiutando.
Per
tutte le nutrie, in che grosso guaio si erano cacciati!
Questo
invece lo pensava Jake, che aveva ancora il cuoricino che batteva a mille per
lo spavento. Dannati ratti! Era dispiaciuto, sentiva di aver coinvolto i suoi compagni
in qualcosa di imprevedibile, e non sapeva come farsi perdonare. E poi chissà
dov’era finito il suo amico Luca, se era anche lui in pericolo, magari sotto
l’attacco di un’altra banda di ratti guerrieri… Si guardava attorno
preoccupato, Raf era triste e aveva lo sguardo perso, Scolo era ferito e non si
era ancora capito se fosse svenuto per il dolore o se stesse semplicemente
dormendo per riacquistare le forze dopo la battaglia. Don Picciotto lo aveva
fatto medicare con un intruglio a base di mollica di pane, acqua e guano
medicale di cui era meglio non chiedere l’esatta provenienza.
Don
Picciotto era l’unico che sembrava non scomporsi, li aveva difesi e portati lì
in volo, e adesso se ne stava comodamente seduto su di una specie di trono
costruito con sapienza e giovane bambù dalle zampette dei “piccioni designer”,
un gruppo che aveva personalmente voluto ai suoi servigi per arredare il suo
superattico in piazza Duomo, specializzati nel recuperare materiali
d’avanguardia fra gli scarti di negozi e vetrine del centro città.
“Ragazzi”
disse Don Picciotto infrangendo quell’angoscioso silenzio “siete troppo
preoccupati.”
Raf
e Jake lo guardarono, nei loro occhietti era racchiuso ciò che era appena stato
detto loro.
“Sì,
lo siamo” ammise Raf.
Jake
la Nutria le fece eco scuotendo la testolina pelosa.
“Non
dovete, almeno finché ci sarò io a proteggervi. Avrei potuto ordinare al
Tenente Colombo di sterminare quella banda di ratti e altre mille come quella,
ma la cosa che importava era portarvi fuori di lì, e in fretta.”.
Don
Picciotto non perdeva mai occasione per sottolineare i propri meriti che, va
detto, fino a quel momento erano indiscutibili.
“Che
cos’è quel cartone quadrato che avete recuperato alla vecchia torre?”
Si
riferiva al disco con la copertina nera e il prisma che scomponeva un singolo
raggio luminoso in tanti raggi colorati.
“Una
custodia. All’interno c’è un oggetto con cui gli umani ascoltano dei suoni”
disse Jake.
“Un
cerchio musicale? Noi li chiamiamo così.”
“Sì.”
“Me
li ricordavo più piccoli.”
“Ci
sono anche più piccoli, erano di moda qualche tempo fa e avevano soppiantato i
più grandi, adesso vanno di moda i più grandi, che andavano già di moda ancora
prima, insomma…”
“Tutto
torna, sempre. Lo diceva Piccio della Girandola, un grande studioso di storia volatile
del futuro, matematica senza operazioni e altre importantissime materie
immateriali, e soprattutto bisnonno del nostro caro Piccioncino… È stata
davvero una grave perdita, pace all’anima sua” disse Don Picciotto lanciando
un’occhiata a Raf: era uno che non dimenticava facilmente i torti subiti. Lei
deglutì lentamente dopo aver sentito pronunciare il nome di Piccioncino, perito
sotto i colpi di uno stormo di sue amiche.
“Crediamo
possa essere un indizio!” provò a dire Jake, colto da uno slancio improvviso di
ottimismo: la sicurezza con cui Don Picciotto parlava era contagiosa, gli
sembrava che anche l’impossibile fosse possibile.
“Spiegati
meglio.”
“Abbiamo
trovato la mappa, l’occhio del malandato e questo disco…”
“Non
soltanto” disse Raf.
Don
Picciotto la guardò come se la osservasse sotto le penne. Raf non arrossì
soltanto perché era nera come la notte e la sua natura glielo impediva, ma la
sensazione era quella.
“Quindi?”
“Jake,
dammi una zampa a tirare fuori il disco” disse lei, e insieme sfilarono dalla
custodia in cartone il vinile che vi era contenuto.
“Ci
sono dei buchi, ma non li hanno fatti i topolini che hanno sgranocchiato i
bordi, ce ne sono altri nel mezzo e sono regolari, precisi, senza sbavature.
Pensiamo li abbia fatti l’umano che chiamano il Malandato, con un qualche
attrezzo, una punta. E pensiamo abbiano un significato, perché questo disco, o
cerchio musicale, ridotto così non può essere ascoltato, eppure lui lo
conservava con cura in quel cassetto nella torre abbandonata, come se lo avesse
nascosto.”
“E
quale significato avrebbe un cerchio musicale pieno di buchi?”
“Non
lo sappiamo”
Don
Picciotto con un cenno dell’ala destra si fece portare dai suoi piccionotti
fedeli servitori una torcia elettrica accesa e un fondo di bottiglia, rotto con
maestria per ottenerne una specie di lente d’ingrandimento. Avvicinò il fascio
di luce al vinile mentre due piccionotti fecero rotolare il vetro fra il disco
e uno dei suoi occhi, che davanti a quel fondo di bottiglia si fece enorme come
quello di un drago sputafuoco. Don Picciotto osservò con attenzione. Poi si
mosse e spostò l’occhio dalla lente.
“Sono
buchi fatti con criterio, da un umano che sapeva quel che stava facendo, avete
ragione a crederlo. Ma soltanto l’oracolo della Grande Punta può dirci che
significato abbiano e a cosa possa servire questo cerchio musicale.”
Don
Picciotto mosse l’ala sinistra, uno dei servitori fece un cenno e il Tenente
Colombo avanzò.
“Chiedi
udienza all’innominabile.”
“L’imprescindibile?”
“Il
solo detentore del malaugurio.”
“L’unico?”
“Lui.”
“Sua
visione imperitura?”
“Lui,
lui! Ci siamo capiti! Vai dall’Unicorvo. Riferisci che voglio essere ricevuto
prima possibile. Si tratta di faccenda urgente e alquanto spinosa. Se si
dimostrasse particolarmente pigro ti autorizzo a ricordargli i favori che
ancora mi deve… e non sono pochi…”
“Vado!”
disse il Tenente Colombo svolazzando nelle notte scura.
Raf
e Jake si guardarono increduli. L’Unicorvo?, pensarono assieme. Ne avevano
sentito parlare molte volte ma lo ritenevano un essere leggendario, avevano
sempre creduto che vivesse nel regno della fantasia e delle storie che le genti
animali si tramandavano di generazione in generazione.
“L’Unicorvo,
avete capito bene” disse Don Picciotto, come se avesse letto i loro pensieri.
“Vive proprio qui, sopra tutti noi. Quasi in cima alla Grande Punta. È l’unico
che può conoscere la risposta. Una sola raccomandazione: quando saremo al suo
cospetto non fissatelo. Mai! Per nessuna ragione al mondo!”
Poi,
udendo un grido lancinante, si voltarono impauriti.
A
quel grido ne seguirono altri due, ravvicinati. A emetterli era Scolo. Atroce
dolore? Tremenda agonia prima di abbracciare la Grande Nutria? Ferita profonda
e sanguinante? No. Niente di tutto questo. Semplicemente aveva avuto un incubo
in cui lottava con un esercito di bottiglie di birra completamente vuote che
avevano la forma di Rattoppato e Rattolomeo, e ogni volta che ne sconfiggeva
una saltandoci sopra e provava a scolarne il contenuto era vuota! Poi gli
faceva male la coscia, e si era accorto di trovarsi sul tetto di un palazzo e
subito si era ricordato di soffrire terribilmente di vertigini.
Scolo
si svegliò urlando, l’ennesima bottiglia del suo incubo era vuota, arida come un
deserto.
“Aaah!”
Gli
faceva malissimo la coscia destra che gli era stata morsa!
“Aaah!”
Era
sul tetto di un palazzo! Le vertigini!
“Aaah!”
Poi
si accorse che i suoi amici e Don Picciotto lo stavano guardando sbigottiti e
si zittì, dissimulò indifferenza e fece loro un sorriso fintissimo.
“Ciao,
vecchie lenze! Tutto bene?”
“Intravedo.
Vedo. Stravedo.”
A
parlare era l’oracolo, l’Unicorvo, il sapiente dei sapienti, il veggente dei
veggenti, la verità delle verità. La voce era calma e pacata. Sembrava un comunissimo
corvo, anche un po’ spelacchiato a dire il vero, e insignificante, che però
portava sulla sommità della testolina, fra gli occhi scuri, un corno altissimo
e perfettamente conico di un colore tra il bianco e il grigio; era vero, oppure
falso, ma quello era. Forse era di carta o forse no, forse era un imbroglione o
chissà. Insomma l’Unicorvo era una domanda vivente, un quesito volante, un
interrogativo beccante. Era trascorsa più di un’ora dalla richiesta di udienza
da parte di Don Picciotto, quando furono ricevuti ormai era notte fonda, che a
guardarla per bene quasi si poteva scorgere in lontananza l’alba. Gli avevano
mostrato gli indizi, lui li aveva studiati e poi aveva sgranato gli occhi per
qualche minuto fissando nel vuoto davanti a sé. Erano nella piazza alla base
della Grande Punta, tra le pozzanghere costruite dagli umani che di giorno
spruzzavano getti d’acqua in aria, circondate dalle luci infisse nel terreno.
Tutti erano rimasti ipnotizzati. Jake e Scolo, nonostante l’avvertimento di Don
Picciotto, fissavano l’Unicorvo con insistenza.
“Secondo
te è vero?” chiese Scolo a Jake.
“Cosa?”
“Il
corno.”
“Zitto”
disse Jake.
“Zitti!”
sussurrò Raf.
“Muti
state” disse Don Picciotto.
“Silenzio!”
esclamò l’Unicorvo, “Intravedo. Vedo. Stravedo.” Al suo fianco c’erano altri
due corvi, le sue guardie delle penne. “Una nutria prova a staccare una tromba
dorata, ha già provato con tutte le altre, e ora insiste con quella… non
demorde, animata da una ferrea volontà, un istinto ancestrale, come se si
trattasse di questione di vita o di morte.”.
“Gentile
oracolo, Unicorvo serenissimo, vostro e nostro incomprensibile enigma donato
generosamente al cosmo intero, che significato hanno le misteriose visioni di
cui ci parlate?” chiese Don Picciotto.
“Ma
quali visioni e visioni? Giratevi” rispose l’oracolo.
Si
voltarono. Dietro di loro una nutria stava armeggiando insistentemente con una
delle strane architetture dorate disposte in cerchio intorno a un buco nel
cemento che lasciava intravedere il piano interrato. Sembravano trombe, ma non
lo erano. E quella nutria era… Pellicciotto Maculato Decimo!
“PM10!”
chiamò Scolo.
La
nutria si voltò. Li vide. Riconobbe due suoi simili, tra corvi, piccioni, e una
cornacchia. Si avvicinò con passo baldanzoso.
“Bella
zii” disse a Jake e Scolo.
“Che
ci fai qui?” chiese Scolo.
“Volevo
prendere una tromba nuova, la mia è da rottamare. Però queste non si staccano.
Ma adesso vado, sono troppo stressato, il logorio della vita moderna mi
distrugge, in questa zona ci sono un sacco di auto elettriche e non ho niente
da ciucciare.”
Si
intromise Don Picciotto. “Si può sapere che succede?”
“È
un amico”
“Possiamo
procedere? Li scusi, signor oracolo devotissimo, vastità universale, sono
mortificato.”
“Intravedo.
Vedo. Stravedo” disse ancora l’Unicorvo. “Gli oggetti che avete a me condotto
sono un’unica cosa, lo sento, e la soluzione è in quel disco, nella copertina,
nell’occhio e nella mappa. La luce vi rivelerà tutto.”
“Ma
così siamo punto e a capo! Non si capisce niente di quello che dice!” si lamentò
Scolo.
“Ssh!”
lo riprese Jake con una zampata sulla pelliccia.
“E
per finire, un avvertimento: chi mi fissa è un fesso” disse l’oracolo.
Distolsero
lo sguardo, perché nel frattempo tutti, nessuno escluso, lo stavano fissando.
“Oh
raga, guardate qui, se mi ci metto sopra con la bocca aperta mi si vede
dentro?” chiese PM10 spalancando le fauci nutriche sopra uno dei faretti che da
terra facevano luce verso l’alto.
“Ma
certo!” rispose Raf la cornacchia.
“Lo
sapevo! Fico!” disse PM10 staccandosi.
“No!
Intendo dire ma certo, ho capito cosa dobbiamo fare! Datemi l’occhio e tutto il
resto! La luce!”
Raf
si fece aiutare da due attoniti Jake e Scolo. Pose l’occhio del Malandato sul
faretto e subito la luce si amplificò aprendosi a raggera e la Madonnina fatta
inserire nella pupilla venne proiettata nel cielo che lentamente stava
rischiarando. L’alba era prossima, dovevano sbrigarsi. Ecco cosa significava la
copertina del disco dei Pink Floyd! Soltanto che al posto del prisma la luce
doveva passare attraverso l’occhio! Jake la Nutria ebbe un’altra intuizione,
che a chiedergliene ragione non avrebbe saputo spiegare con parole nutriche, né
ora né mai. Sfilò il disco dalla custodia e lo avvicinò all’occhio, appoggiandocelo
delicatamente sopra.
“Scolo,
aiutami, mettiamo il centro del disco esattamente sopra al centro dell’occhio.”
“D’accordo.
vecchia lenza, mi piace questa faccenda, mi sembra di essere in un film!”
Scolo
zoppicando aiutò Jake a posizionare il disco con precisione, il foro centrale
in corrispondenza della minuscola Madonnina incastonata nella pupilla
dell’occhio.
Un
fascio di luce con la statuina si stagliò nel cielo come un laser.
Dagli
altri buchi nel disco uscirono ancora raggi che si allargavano salendo.
“Wow!”
disse PM10.
“La
mappa!” esclamò Raf.
Don
Picciotto gliela porse con gentilezza e uno sguardo languido. Scolo si ingelosì
all’istante ma c’era pur sempre qualcosa di molto più importante a cui pensare
in quel momento, per cui ebbe soltanto il tempo di emettere uno sbuffo di
antipatia fra i suoi dentoni da nutria.
Raf
spiccò il volo con la mappa fra le zampe, la posò sul disco e... incredibile! I
raggi di luce che passando dall’occhio e filtrando attraverso i buchi nel disco
incontravano la superficie della mappa corrispondevano esattamente ad alcune
delle X segnate sulla carta! I buchi nei dischi del Malandato componevano la
mappa e indicavano le X… Il Malandato aveva inventato un sistema ingegnoso per
poter riprodurre la mappa! Ma perché? Restavano ancora molti misteri da
risolvere. La luce dell’alba arrivò a sfumare ciò che fino a poco prima era
distintamente proiettato nel cielo scuro. La vita degli umani stava per
riprendere il suo solito inspiegabile percorso, e loro dovevano andarsene da
lì.
“Intravedo.
Vedo. Stravedo” disse ancora l’Unicorvo. “L’umano con un occhio solo sa come
stanno davvero le cose. Un grave pericolo incombe. I dischi vi diranno cosa e
dove cercare. Fatevi aiutare da lui” disse, e indicò con un’ala spelacchiata in
direzione di PM10. “Quella nutria è come me, ha il potere di vedere le cose
oltre le cose.”
Tutti
guardarono sbigottiti Pellicciotto Maculato Decimo, che nel frattempo
zampettava tranquillo verso la Foresta Dritta.
“Te
l’avevo detto! Non è un imbroglione!” disse Scolo a Jake. “Andiamo!”.
“E
dove?”
“Non hai sentito l’Unicorvo? PM10 lo sa! Dobbiamo
seguirlo!”
Capitolo 13
In cui qualcosa comincia ma non finisce
Nero.
Tremore. Poi luce. Nel videoregistratore a casa di Giacomo il nastro frusciava,
sulla parete erano proiettate delle figure. Ridevano, si stringevano la mano.
Era una situazione ufficiale, ma la videocassetta era quasi smagnetizzata,
l'immagine era molto sbiadita. Molto sbiadita. La prima persona a parlare fu un
prete, ma non si capiva niente, perché l'audio gracchiava come una cornacchia.
Presentava qualcosa, una manifestazione, uno spettacolo. Le ombre, la cui testa
veniva disegnata da una silhouette alla base della proiezione, seguivano con
attenzione. L'immagine, man mano che scorreva il nastro, si fece più nitida.
Entrarono in scena due guardie, strattonando un terzo uomo. Una delle guardie
gracchiò: “Padre! Abbiamo fermato questo balordo, un senzatetto, in possesso di
candelabri e crocifissi d'oro: dice che voi glieli avete regalati!”.
Il
prete osservò con autentica delusione l'uomo, pestato e in ginocchio, con i
polsi legati, che aveva accolto la sera prima in casa propria e l'aveva
ricambiato col furto degli ori: aveva una benda sull'occhio, e qualcosa di
familiare nella postura.
“Ma
quello...”
“Quello
è...”
“Ehi,
ma quello è il Malandato...” disse Luca.
“Papà!”
esclamò Anna.
“Papà
che recita?”
La
guardia riprese: “Sappiamo che non è così, padre, e le abbiamo riportato il
bottino trafugato da questo ladro!”.
Il
prete fissò in volto la guardia: “Quest'uomo si chiama Jean Valjean, e io
stesso, ieri sera, gli ho fatto dono di queste poche cose d'oro”.
Le
guardie guardarono offese l'uomo di chiesa, e poi l'uomo chiamato Jean Valjean,
si voltarono con stizza e uscirono di scena. Quindi il Malandato Jean Valjean
si levò in piedi, baciò le mani del suo benefattore e questi disse: “In verità,
in verità ti dico: io ti offro il regno dei cieli. A te, a tutti gli umiliati,
e offesi. Non avrai bisogno di rubare niente, perché Dio provvederà a...”.
E
qui il VHS si inceppò.
[NOTA
PER I LETTORI: ANCHE IL CAPITOLO SI È INCEPPATO, MA RIPRENDERÀ
NELLA PROSSIMA PUNTATA…]
LA STORIA CONTINUA: TROVATE IL TESTO DELLA PRIMA PUNTATA QUI:
DELLA SECONDA QUI:
DELLA TERZA QUI:
E QUI I CAPITOLI LETTI DAGLI AUTORI:
VIA AI NUOVI SUGGERIMENTI! ASPETTIAMO I VOSTRI SPUNTI SU COME CONTINUARE IL ROMANZO ENTRO LE ORE 12 DEL 16 MAGGIO QUI E SU FACEBOOK.COM/STRASTORIE.
QUI TROVATE LE ISTRUZIONI PER PARTECIPARE:
StraStorie ExtraLarge: un romanzo scritto attraverso l’interazione con i lettori
Un format di narrazione condivisa di Valeria Ravera
Con Riccardo Besola, Andrea B. Ferrari e Francesco Gallone
In collaborazione con la libreria Covo della Ladra - Ladra di Libri
Illustrazioni di Guendalina Ravazzoni
Musiche di Alessandro Arbuzzi
Incursioni di Oliviero Ponte Di Pino
Supporto tecnico di Giorgio Paolo Albani
Dal vivo: 21 marzo, 4 e 18 aprile, 9 e 23 maggio, 6 giugno 2018 (ore 19), al Binario 9 e ¾ della Libreria Covo della Ladra, Milano
Sul web: www.strastorie.it e facebook.com/strastorie
Un format di narrazione condivisa di Valeria Ravera
Con Riccardo Besola, Andrea B. Ferrari e Francesco Gallone
In collaborazione con la libreria Covo della Ladra - Ladra di Libri
Illustrazioni di Guendalina Ravazzoni
Musiche di Alessandro Arbuzzi
Incursioni di Oliviero Ponte Di Pino
Supporto tecnico di Giorgio Paolo Albani
Dal vivo: 21 marzo, 4 e 18 aprile, 9 e 23 maggio, 6 giugno 2018 (ore 19), al Binario 9 e ¾ della Libreria Covo della Ladra, Milano
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Nascosto dietro a una colonna, Flambé aveva assistito allo scontro tra i ratti, le nutrie e la cornacchia, indifferente agli assalti e ai rivolgimenti di fronte, quasi ridendo sotto i baffi per tutto quell'agitarsi. Un felino non sarebbe mai sceso così in basso! Però, quando era arrivato Don Picciotto con la sua ghenga, la sorpresa del gatto era stata grande, e il suo compito si era complicato. Come avrebbe fatto a ritrovare quelle stupide nutrie? Don Piccciotto aveva basi ovunque, nessun angolo di Milano era inaccessibile per lui... Flambé avrebbe dovuto fare ricorso al suo asso nelle vibrisse. Giocarsi quella carta era molto pericoloso, ma non aveva alternative. Il tempo della verità era arrivato.
RispondiEliminaLUCIO