STRASTORIE EXTRALARGE
UN ROMANZO SCRITTO ATTRAVERSO L’INTERAZIONE CON I LETTORI DA RICCARDO BESOLA, ANDREA B. FERRARI E FRANCESCO GALLONE
Capitolo 5
Una risposta.
Ciò che cercava era esattamente quello.
Semplice, chiara e nitida. E quella risposta soltanto una nutria poteva
dargliela: Scolo. Le voci girano rapidamente tra gli abitanti non umani di una
super colata di cemento e asfalto come Milano. Così, quando le sue amiche le
avevano detto di aver trovato quella cosa che adesso stringeva nel becco, le
avevano anche riferito di aver sentito che una piccola banda di nutrie della
Martesana, capitanata da un giovane e strano umano, si era diretta al centro
città alla ricerca di un altro umano, una specie di pirata solitario che si
faceva chiamare il Malandato e da qualche giorno era sparito insieme a molti
altri. Insomma, quella cosa che avevano trovato poteva appartenere a lui.
Raf era subito decollata in direzione
del luogo del ritrovamento, aveva stretto l’oggetto nel becco raccomandando
alle sue amiche di tenere le ali ben aperte (in cornacchico equivale a drizzare le antenne, stare all’erta) ed era
ripartita immediatamente alla ricerca di Luca, Jake e Scolo.
Volava da almeno un’ora, ed era
riuscita a raggiungere il gigantesco pietrone bianco pieno di punte e statue
che gli umani chiamano Duomo: sapeva che era proprio quello il centro della
città. Si fermava di tanto in tanto su qualche tetto o comignolo, per riposare
tra le tegole. Milano le lasciava la libertà di osservare senza essere notata,
di vedere umani di tanti tipi e ascoltare quello che dicevano. Solitamente, ma
non era questo il caso, le cornacchie sottraggono oggetti di cui ignorano sia
il nome che la funzione. E se a qualcuno questo fatto – sottrarre qualcosa che
non si sa cosa sia – potrà sembrare strano, sappia che non lo è per nulla. Il
punto è che le cornacchie non sottraggono gli oggetti altrui per qualche scopo
specifico, sia esso utilitaristico o ideologico, insomma non sottraggono per
vivere e nemmeno per dare ai poveri, ma soltanto per curiosità. Figurarsi
quanta curiosità avesse allora Raf nel cercare Scolo e i suoi amici e con loro
la risposta alla sua domanda: quella cosa apparteneva davvero all’umano
chiamato il Malandato?
Si era appena posata su una delle
guglie del Duomo, stanca per tutto quel volare: appoggiò delicatamente
l’oggetto, si sgranchì il becco e si sentì subito osservata. Un piccione la fissava,
prima con un occhio e poi con l’altro. Raf lo ignorò, ma subito ne arrivò un
altro e un altro ancora. In breve si ritrovò circondata. Poi il cerchio di
volatili si aprì, e al suo interno zampettò verso di lei un piccione più
piccione di tutti gli altri, seguito da un compagno.
“Chi sei?” chiese.
“Una cornacchia.”
“Lo vedo. Ma questa è zona nostra, non
puoi arrivare e partire senza darne ragione. I nostri controllori di volo ti
hanno intercettata da un po’, e sembra che tu stia tentando di trovare qualcosa
nelle piazza, dal tuo modo di girare in tondo e guardare verso il basso.
Dunque?”
“Mi chiamo Raf e sto cercando degli
amici.”
“Io sono Don Picciotto capo di tutti
gli stormi del Duomo, e questo al mio fianco è il tenente Colombo, capitano
della squadriglia di intercettori. Quali amici stai cercando? E cos'è quella
cosa che avevi nel becco?”
“E se non volessi rispondere?”
“In questo caso sei nostra prigioniera.”
Liscione, quando voleva, sapeva essere
un tipo spigoloso.
“Allora dentoni?” chiese. “Mi
rispondete o no?”
Jake guardò Scolo che guardò Luca che
guardò Jake che guardò Liscione. Deglutì. Non sapeva cosa fare, doveva
rispondere sinceramente? Fu allora che Scolo prese in zampa la situazione.
“Stiamo cercando un umano chiamato il
Malandato.”
“Perché?”
“È un nostro amico. È sparito.”
“E lo cercate in piazza Duomo?”
Liscione scoppiò in una fragorosa risata nutrica, una sorta di squittio
gutturale.
Fu allora che intervenne Jake: tanto
valeva non avere segreti con quel dritto del Liscione.
“Abbiamo trovato una mappa fatta da
lui, su cui sono disegnate tante X, e un paio più grandi indicano l’immensa piazza
al centro della città: il Duomo e la statua che gli sta davanti.”
Liscione lo guardò perplesso.
“Avete con voi la mappa?”
Jake annuì.
Liscione si grattò il mento, soppesando
in silenzio quanto gli era stato appena detto, infine parlò.
“D’accordo, più tardi me la mostrerete.
Voi tre mi sembrate una coppia molto affiatata” disse, lasciando Jake e Scolo a
interrogarsi su quello strano modo di dire, forse in voga tra le nutrie più
trendy e disinibite. “Per questo vi credo. Siete fuori come una grondaia a
vagare in pieno giorno in quella piazza. Ci torneremo questa notte. Nel
frattempo seguitemi.”
“E dove andiamo?”
“Vi faccio assaporare un po’ di vita da
nutrie del centro città, siete affiatati ma periferici, se volete passare
inosservati dovete guardare cosa fanno gli umani e i non umani qui. Più siete
strambi e meno vi noteranno.”
Jake e Scolo si guardarono. Liscione
zampettò verso il parco Sempione. Luca, che stava ancora pensando ad Anna e
aveva sempre lo sguardo perso ed estasiato, si destò e li seguì con un sorriso
ebete, tipico degli umani perdutamente innamorati.
“Ehi Bob, aspettami! Dove vai?” disse.
Ebbero modo di incontrare umani che
correvano per i sentieri di sassolini bianchi sudando tantissimo. Nelle
orecchie avevano dei tappi sonori che li rendevano delle specie di robot
impermeabili alla realtà. Dopo non molto, li incontrarono nuovamente (a quanto
pareva correvano in tondo compiendo larghi giri nel parco), sempre più paonazzi
e sudati e sfiniti. Altri andavano in bicicletta, altri ancora facevano
esercizi ginnici, nonostante il freddo. Videro l’Arena Civica, la torre Branca,
il laghetto occupato da un antico clan bavarese di germani reali, il ponte
delle Sirenette, la fontana dell’acqua marcia e la Triennale. Liscione sembrava
una guida turistica, sciorinava nomi e date, sfoggiava una cultura immensa o
fingeva benissimo di averla. Poi si ritrovarono al punto di partenza e Liscione
si fermò. Scolo e Jake avevano il fiatone, si reggevano uno con l’altro, zampe
sulle spalle. Luca si guardava attorno come se Anna potesse rispuntare
all’improvviso, come una fata.
“Bene, ragazzi. Adesso ci vuole del
sano relax. Venite con me, ho un pied-à-terre qui vicino.”
Scesero alcune vecchie scale,
arrivarono sul fondo del fossato che circondava il castello e si ritrovarono davanti
a una porta chiusa. Liscione bussò con la zampa. Toc-toc.
“Chi è?”
“Io. Con amici.”
La porta si aprì. Entrarono in un lungo
corridoio buio, la poca luce presente filtrava da alcune strettissime feritoie.
Luca li seguì. La nutria di guardia all’ingresso richiuse la porta alle loro
spalle.
“Pensavo che voi tre dovreste trovare
un nome…”
“Cioè?” chiese Scolo.
“Ma sì, tipo Banda Quasi Nutria, o
Banda Balorda… Una cosa del genere, siete simpatici e dovreste avere un nome
simpatico.”
“Ma dove andiamo?”
“Ve l’ho detto, nel mio pied-à-terre.”
In lontananza si udivano della musica e
delle chiacchiere nutriche, distinguibili soltanto alle orecchie pelose di Jake
e Scolo. Scesero alcune scale, superarono brevi corridoi, svolte, volte, e
giravolte, ragnatele, polvere e vecchi mattoni consumati dal tempo. In poche
parole Jake, Scolo e Luca persero l’orientamento in quel dedalo di cunicoli
sotterranei in cui invece Liscione si muoveva perfettamente a proprio agio.
“Qui sotto è pieno di cunicoli. Gli
umani ne hanno scoperti solo una parte, altri sono inaccessibili. Il resto è
tutta roba mia e della mia banda. Prima ci abitava un clan di ratti, abbiamo
lottato e li abbiamo cacciati via. Subaffittiamo ai gatti in cambio di una
parte dei croccantini che porta loro la gattara. E poi con loro i topacci non
tornano. È un buon accordo.”
Sbucarono in un sorprendente salone
sotterraneo, il soffitto un continuo intersecarsi di volte. Era illuminato da
candele. E da femmine. Un sacco di femmine! Salutarono tutte Liscione con
grande ammirazione, confermando la sua fama di nutria tutta d’un pezzo e di
gran conquistatore. Jake e Scolo non ne avevano mai viste tante in vita loro!
Si trattava di un harem, altro che pied-à-terre! Su alcuni vecchi cuscini e
sedie abbandonate erano accomodate, vicino ad altre nutrie della banda di
Liscione: mangiavano e bevevano Ruttaforte, una nutria correva
sapientemente su e giù per i tasti di una pianola, emettendo dei suoni
organizzati e armoniosi. Somigliavano a quelli che gli umani chiamavano
acid-jazz e che spesso ascoltavano ondeggiando la testa durante quelli che
chiamavano aperitivi.
“Fate come se foste a casa mia.
Sedetevi e rifocillatevi” disse loro Liscione. “Farò portare qualcosa anche al
vostro amico umano.”
Si sedettero. Poco dopo un paio di
nutrie portarono loro del cibo, acqua e un paio di bottiglie di Ruttaforte
da scolare, cosa che Scolo non si fece certo ripetere. A Luca vennero offerti
un pacchetto di patatine fritte, una scatoletta di tonno e una bottiglietta di
minerale.
“Ma dove trovate tutte queste cose?”
chiese Jake.
“Qui sopra è pieno di turisti, amico.
Da mattina a sera. Mangiano e bevono e si fanno un sacco di fotografie. Ecco,
quando loro si fanno le foto…” disse con un sorriso.
La musica era rilassante, il posto
incantevole, la stanchezza della giornata quasi piacevole, come una morbida
culla in cui abbandonarsi.
“Ehi! Sveglia!”
La voce perentoria era di Liscione.
Jake e Scolo aprirono gli occhi. Si
erano addormentati, Santa Nutria! Luca ronfava ancora come un vecchia
locomotiva a vapore.
“Voi tre siete una coppia molto
affiatata anche quando dormite, siete crollati all’unisono! Comunque, mentre riposavate
le stanche membra, io mi sono portato avanti. Ho guardato la vostra mappa. Ben
strana, a dire il vero. Ma bella, molto bella. Credo abbia un senso. Non l’ho
ancora capito ma ci sto lavorando. Adesso zampe in spalla e andiamo!”
“In Duomo?” chiese Jake.
“E dove sennò?”
“Ma è già sera?”
“Quasi notte. Svegliate l’umano.”
Jake si mise a strattonare i pantaloni
di Luca, che con qualche sbuffo smise di russare, aprì un occhio, poi l’altro,
si stiracchiò e disse: “Ciao Bob, che dormita!”.
Liscione zampettò sicuro verso uno dei
tanti cunicoli bui. Stringeva tra i denti una grossa lampada da cantiere, a
luce intermittente, a batterie solari. Si voltò.
“Seguitemi” biascicò “andiamo in piazza
Duomo dai sotterranei!”
Scolo lo guardò sbigottito.
“Ci sono dei cunicoli che da qui
arrivano in piazza Duomo?”
Liscione sorrise.
“Ci sono cunicoli che portano ovunque! E adesso andiamo,
per tutte le ragnatele!”
Capitolo 6
Dove
conosciamo un giovane che ce l’ha fatta
La mano del giovane uomo, glabra, senza
pellicine superflue e fresca di manicure, si appoggiò alla maniglia
dell’ufficio, un ampio loft, ricavato nel soppalco del grande ristorante
affacciato su via Bergognone.
La luce soffusa e l’incenso giapponese
davano all’ufficio un’aria accogliente e di consapevole bellezza.
La mano sollevò il coperchio del
terrario, posto sul mobile vintage alle spalle della grande scrivania di tek,
svitò un barattolo di cibo per animali e ne versò una dose generosa alla
piccola iguana che sonnecchiava sorniona.
A quell’ora il ristorante era vuoto,
pulito di fresco e già in ordine per il giorno successivo. I pavimenti di
parquet invecchiato, color del miele, erano lucidi come un campo da basket
americano, le grandi vetrate che davano direttamente su via Bergognone erano
state passate ad arte, a fine servizio, e le vetrofanie in caratteri dallo
stile leggermente retrò annunciavano ai passanti nottambuli che quello era il “Tempio
della bistecca di seitan”. Nessuna serranda veniva mai abbassata e tutto il
locale era costantemente illuminato da una serie di discrete lampade che
spuntavano come funghi biologici dal pavimento. L’intero locale aveva un
allarme così potente che nessun ladro di polli di tofu si sarebbe mai
avvicinato più del consentito.
L’uomo si passò la mano sulla lunga
barba che curava personalmente e pettinava almeno ogni due ore e si arricciò
con perizia i baffi biondi come una delle sue birre artigianali.
Tutte le notti, da martedì a domenica,
a quell’ora si sentiva tranquillo e soddisfatto. Faceva sempre in modo di
passare dall’ufficio del primo ristorante che aveva aperto tre anni orsono. Allora
era solo uno sbarbato senza padre e con un unico pensiero in testa: diventare
qualcuno e non fallire mai.
Con gesti misurati, quasi rituali, mise
sul giradischi un vinile dei Violent Femmes, e non appena la puntina incontrò
la prima traccia, il giovane svitò un barattolo di crema al burro di karité e
prese massaggiarsi dapprima le caviglie, poi i polpacci fino a incontrare il
risvoltino dei pantaloni a scacchi piccolissimi. Le calze erano fuori moda, ma
la pelle con il freddo umido di Milano rischiava di arrossarsi e lui non poteva
permettersi odiosi inestetismi. Riavvitando il barattolo di crema, pensò che il
prossimo step del risvoltino sarebbe stato il modello Daisy Duke, la cugina dei
due bellocci che aveva visto in una serie tivù degli anni Ottanta. Dopo di che
avrebbe dato il la a una nuova idea. I calzoni sottosuola.
Poteva pensare queste cose, perché era
uno che ce l’aveva fatta. Ora possedeva sei ristoranti come quello, sparsi
nelle zone più belle della città, e come se non bastasse da qualche tempo non
era più solo l’ideatore delle prime bisteccherie vegane d’Europa. Il giornale
in “voga” per antonomasia lo aveva
fatto assurgere all’ambito ruolo di influencer. Il suo profilo I-guana vegana, dal logo che impreziosiva le
insegne dei suoi ristoranti, era uno fra i più seguiti, sia su Twitter che su
Instagram.
Ah, se suo padre lo avesse visto in
questo preciso momento. E chissà cosa avrebbe detto la gente che lo idolatrava
se avesse saputo che un sacco dei suoi scatti di successo su Instagram li aveva
fatti proprio la sua iguana. La cosa era nata come una provocazione, ma aveva
preso piede e alla fine lui aveva dovuto riconoscere che I-guana vegana era
davvero la miglior consulente d’immagine che poteva assumere. Costava anche
relativamente poco, perché il mangime che le dava, pur provenendo da sementi
selezionatissime e rare, non era molto dispendioso.
I-guana osservava il suo umano di
sottecchi. Faceva sempre così a quell’ora della notte. Lui credeva che stesse
dormicchiando, invece lei lo scrutava, lo studiava e cercava di architettare
qualche contenuto geniale per il post della notte o per la foto del mattino
seguente. Qualche volta il suo umano faceva un tweet o una foto per conto suo,
ma la rete non rispondeva. Così toccava a lei darsi da fare e lanciare l’hot
topic del momento.
Già perché lui era uno che ce l’aveva
fatta, ma senza di lei nulla sarebbe nato della loro fortuna.
“Mi chiamo Ardea ed ero una pellegrina,
ma da quando il mio umano mi comprò per pochi euro dal negozio di animali in
via Mac Mahon che stava fallendo, sono I-guana. Fino a quel punto tutta la sua
vita era stata una costellazione di fallimenti, affari andati male e scarse
soddisfazioni, sorte che del resto era toccata a tutta la sua famiglia.
Lui racconta che ha scelto me perché
fra i dischi del padre aveva praticamente consumato quello di Iggy Pop,
l’iguana, ma la verità è che ero in saldo e lui non possedeva quasi nulla.
In ogni caso, mentre stava per buttarsi
nell’ennesima impresa destinata a finire male, una macelleria con griglia
annessa, io gli lanciai l’idea della bisteccheria vegana. Non fu semplice, ma
alla fine ci riuscii. Continuava a darmi da mangiare piccoli topolini e altri
animali morti, ma io rifiutavo. Mi giravo dall’altra parte e rischiai anche di
restarci secca a furia di non mangiare. Un giorno in cui il mio umano era
disperato, prese una foglia di lattuga e me la buttò nel terrario. La divorai e
lui capì. Per essere unici, bisogna pensare per primi e lanciare le mode, non
seguirle come dei ramarri di periferia. Continuò con la bisteccheria, ma intuì
che il problema era la carne. Non era più di moda, mentre il seitan, il muscolo
di grano e il tofu erano il futuro. Mischiate il tutto con un po’ di biologico,
birre crude, vigneti a km0 e coltivati solo da uomini, unite a una buona dose
di net economy e capirete il perché del successo della nostra start-up. Questa
grande città è un laboratorio a cielo aperto, e con la giusta idea ci si
innalza alla svelta verso il successo. Dovetti dargli atto di essere un uomo
sveglio e umile, perché per prima cosa mise la mia immagine sulle vetrine di
questo ristorante e io divenni quello che sono: non più Ardea, né I-guana, ma
l’I-guana vegana.”
Il disco finì e il giovane uomo si alzò
dalla sua poltrona in radica e vimini, acquistata ad un’asta di cimeli della
guerra civile americana. Aveva fatto una foto di sbieco alle sue bretelle
filate a mano con motivi tardo barocchi, ma nessuno dalla rete sembrava aver
apprezzato. Così, prima di andarsene verso la casa di suo padre, dove viveva
ancora il resto della sua famiglia, prese l’IPhone X e lo posò nel terrario.
L’I-guana si mosse lenta verso l’apparecchio e iniziò la sua magia.
Il giovane ripose il disco e lo infilò
in una borsa di canapa grezza, con ricamato il logo del Tempio della bistecca
di seitan e si disse che quella notte, dalla selezione di dischi del padre,
avrebbe preso tutto il southern rock che
era disponibile. Non sapeva come mai, ma la gente che frequentava i suoi locali
era pazza per la musica rétro, per le biciclette vintage e per il suo
abbigliamento da dandy che tutti definivano hipster.
“Eravamo di nuovo al punto di partenza.
Lui aveva appena fatto una foto maldestra e nessuno dei nostri followers lo
aveva notato, quindi toccava a me fare la mossa giusta. Decisi di giocarmi quella
della muta fuori stagione, che avevo utilizzato anni prima per lanciare
l’idiozia dei calzoni lunghi, ma risvoltati fino quasi al ginocchio. Era stato
un gioco da girini. Avevo appena cambiato la pelle e fotografai la mia coda
vecchia senza la parte appuntita che avevo rimosso con le mie unghie affilate.
La gente capì che bisognava accorciare le estremità e di lì nacque la moda
dell’acqua in casa e delle caviglie scoperte. Ora, per rimediare alle bretelle
ricamate, decisi di avvolgermi attorno al collo un bel lembo della mia pelle
appena cambiata, di modo che sembrasse una collana o una specie di fascia
ornamentale. Cliccai e via verso il successo. Nel giro di tre minuti il
cellulare trillò così tante volte che il mio umano fu costretto a silenziarlo.
Avevo vinto ancora. Poi mi addormentai e attesi che mi trasportasse a casa
della sua famiglia, per il cambio dei dischi e, alla fine, nel terrario gigante
a casa nostra.”
L’iPhone era rovente. L’I-guana vegana
era addormentata, ma era stata di nuovo geniale. Il selfie con la pelle appena
cambiata messa a mo’ di collare o fascia vicino alle sue bretelle aveva fatto boom. E fra le decine di migliaia di
condivisioni era spuntata l’idea di riciclare le mute dei rettili per
impreziosire le bretelle e le cinture realizzate in tela grezza. Lo slogan fu
semplice ed efficace e il ragazzo lo postò poco prima di uscire dal ristorante:
“Non sprechiamo la pelle dei nostri amici, ma rendiamola un gioiello per i
nostri vestiti”. Al mezzo milione di like, lui decise che l’indomani avrebbe
avviato la produzione di quelle cinture e bretelle, tutte a marchio I-guana
vegana.
Fuori, mentre si incamminava con il suo
rettile in uno speciale trasportino riscaldato di ultima generazione, la città
delle infinite possibilità dormiva il sonno dei giusti. Breve e proficuo,
perché il mattino ha il fatturato in bocca e alle 06.00 tutti sarebbero stati
operativi.
Nello stabile signorile di via Tortona
13, unico segno distintivo di un benessere ormai sfiorito da troppi anni, la
moglie del Malandato si era addormentata subito dopo cena. Anna invece era
ancora sveglia e leggeva per la terza o la quarta volta La fattoria degli animali.
Era semisdraiata sul divano del
salotto, le gambe lunghe e atletiche mollemente appoggiate al tavolino di
fronte e il libro illuminato da una piccola abat-jour verde bottiglia. La
televisione era spenta e l’unica presenza oltre alla sua era lo spirito del
Malandato che la osservava dalla gigantesca libreria che occupava tutto il
perimetro del salotto. Vi erano, in parti uguali, volumi fra i più svariati e
dischi di ogni sorta. Vinili di progressive, rock psichedelico, musica classica
e sinfonica, blues nero e rock’n’roll delle origini. Una vera miniera d’oro per
un collezionista e anche per suo fratello Giacomo, che settimanalmente passava
per cambiare la playlist nei suoi locali.
La serratura schioccò gentilmente e
fratello e sorella si trovarono l’uno di fronte all’altra, come due facce
diverse della stessa medaglia. Lui curato, con la sua barba perfetta, gli
occhiali Ray-Ban in legno screziato e con i suoi abiti griffati, ma ecologici,
equi e solidali. Lei, bellissima nella sua aria dimessa. Le gambe fasciate in
un paio di leggings del mercato e con addosso un maglione di lana grezza troppo
lungo di maniche e oltremodo morbido sul sedere. I capelli lunghi, legati con
un bastoncino di legno di sandalo e gli occhi consumati dalla tragedia del
padre e della madre.
“Ciao, fratellino. Tutto bene?”
“Ciao, sis, non si vede?” rispose il
ragazzo appoggiando a terra il trasportino con l’I-guana.
“Ho visto su Instagram che hai una
nuova idea per le mani?”
“Già. Ho azzardato e tac. Non c’è niente da fare, da quando
il business è partito non si ferma più. Non come…” si fermò per non ferire la
sorella.
“Come papà, volevi dire?”
“Precisamente.”
Anna iniziò a tormentarsi le dita e i
polsini del maglione.
“Comunque” disse Giacomo tramestando
nella libreria del padre “vengo a rimettere giù questo disco e a prenderne un
po’ per la prossima settimana.”
“Okay. Ma stavolta metti tutto a posto,
che la scorsa settimana hai lasciato un casino di dischi per terra.”
Giacomo la guardò sbalordito. Si aggiustò
la barba e i baffi, poi rispose: “Impossibile, sister, la settimana scorsa ho
preso solo i Violent Femmes ed era tutto a posto”.
Anna lo guardo senza parole, ma con la
mente che iniziava a vorticare pericolosamente…
Giacomo le passò di fianco e appoggiò
una mazzetta da duemila euro sul tavolino di fronte al divano.
“Questi sono per voi” disse, indicando
i soldi “e se lo vedi non dirgli che a voi ci sto pensando io.”
“Grazie, ma non sei obbligato.”
“Anna, sei la mia famiglia. L’unica
parte ancora okay, almeno. Te lo devo per quello che hai fatto per me quando
lui è scomparso.”
“È sparito di nuovo, lo sai? Non si
trova più sotto il ponte in Martesana. Sono preoccupata.”
“Lascia perdere. Chi sparisce una
volta, lo farà sempre e, soprattutto, senza avvisare. Ora vado. Ci vediamo la
prossima settimana. Take care” disse Giacomo raggiungendo la porta.
“Come fanno a non sentire questo fetore di maiale marcio?”
disse fra sé l’I-guana vegana, rigirandosi nel trasportino, infastidita dal
freddo dal pianerottolo e dal puzzo fetido che appestava il salotto. “Umani dai
sensi praticamente inutili” pensò. “Cosa farebbero senza noi rettili.”
Capitolo 7
In
cui i piccioni non sono quello che sembrano
Il
cunicolo era profondo e oscuro, di una regolarità inquietante, e l'unico
bagliore amico era quello della lampada da cantiere trascinata da Liscione.
L'umidità aggrediva il pelo delle nutrie e gli abiti di Luca, s'infiltrava
nelle narici assieme all'odore della brillantina che le femmine dell'harem di
Liscione avevano applicato al pelo del loro idolo e maschio alfa. Non dovettero
camminare molto, ma la percezione fu quella di stare avanzando in sogno, di
essere sospesi, smarriti nel nulla. Erano corridoi antichi, scavati chissà per
quale fine, per quale evenienza. Liscione trascinava la sua lampada
intermittente in quel cunicolo in cui Luca riusciva a camminare col capo chino
e la schiena leggermente piegata in avanti, dando all'esperienza una valenza
psichedelica, e il pensiero di Scolo corse a PM10: era l’unico che forse avrebbe
potuto godere appieno di questo “viaggio”.
“Ci
siamo, dentoni!” avvertì Liscione, e in un attimo il cunicolo si fece stanza,
le pareti di roccia e terra si fecero regolari e di mattoni rossi, sorrette da
archi e volte, e l'aria si fece leggermente più respirabile per tutti, non
fosse stato per la quantità davvero eccessiva di brillantina che Liscione aveva
preteso sul proprio impeccabile pelo.
“Dove
siamo?”
“In
piazza Duomo, dentoni! Qua siamo all'incirca sotto la statua del cavallo. In
verità, in verità vi dico, che potrei guidarvi ovunque, attraverso questo
labirinto sotterraneo!”
“E
allora perché non usate questi passaggi per venire dal Lambro a qui?”
Liscione
sferzò con un'occhiata indignata Jake, che aveva parlato: “Ehi, nutria: la
metropolitana è moooolto più comoda e agevole, rispetto a queste interminabili passeggiate,
non credi?”.
Luca
osservava ammirato il luogo in cui si trovava, senza aver davvero capito dove
fosse e perché: aveva semplicemente seguito Bob e i suoi amici, null'altro. Poi
udì un rumore, e qualcosa si mosse nel buio. Se avesse potuto comprenderlo,
avrebbe sentito Liscione dire, in tono perentorio: “Ratti! Dobbiamo muoverci!
Vige l'armistizio, ma se ci dovessero far le pellicce, chi se ne accorgerebbe,
quaggiù?”.
D'altra
parte, a domanda rispondere è una forma di educazione, più che di cortesia, e
Raf era una cornacchia educata. Era una ladra, sì, ma una gentilcornacchia
ladra! E nella vita, si sa, una buona educazione può far fare più strada di
un'immensa ricchezza o di una fortuna sfacciata (caratteristica che forse Raf possedeva,
ma questa sarebbe un’altra storia), e così fu che dal suo becco uscissero tali
parole in aviario comune (il linguaggio convenzionale che tutti gli uccelli
conoscono per poter comunicare tra loro, a prescindere dalla specie): “Reco con
me questo oggetto, di cui ignoro la natura, per mostrarlo al mio amico Scolo,
nutria del Naviglio Martesana. Scolo è in viaggio con un'altra nutria e un umano,
e le ultime informazioni che ne ho avute mi hanno indirizzata qui.”
Don
Picciotto tubò qualcosa in piccionese al tenente Colombo, che dilatò gli occhi
e muovendosi a scatti passò in rassegna le fila di piumati. Alcuni piccioni si
levarono in volo. La città si agitava ancora intensamente. Era ormai quasi ora
di cena, e Don Picciotto si rivolse a Raf: “Dunque, Raf, il mio stomaco
brontola: sarai nostra ospite, andremo al ristorante. Ho inviato alcune vedette
a esplorare e chiedere in giro... niente sfugge a Don Picciotto! A becco pieno,
sarà più piacevole trovar delle risposte, non credi?”.
Mentre
Raf annuiva, non riuscendo a definire se si sentisse ospite o prigioniera, nelle
vicinanze Jake e Scolo ascoltavano attentamente il Liscione.
“Vedete,
dentoni... ho fatto una scoperta... o meglio, l'hanno fatta i ratti, chissà da
quanto tempo, ma io ho capito che potevamo sfruttarla anche io e i miei... la
città di sopra...” fece una pausa, mentre snutriava attraverso una fessura tra
due pareti ricoperte da una muffa viscida che altro non era che smog “… la
città di sopra è tutta collegata da sotto. Ci sono antichi templi, prigioni
segrete, rifugi per le guerre... noi non abbiamo visto guerre, qui, ma ce ne
sono state, e di feroci... e poi ferrovie, parcheggi, uffici. Da sotto puoi
arrivare dappertutto, con una varietà di ambienti pazzesca, avete visto, no, il
cunicolo di terra e pietra, le stanze di mattoni, ora questo... ho ascoltato
degli umani che vengono a visitarlo. È un battistero. Praticamente ci
immergevano la gente nell'acqua. Voi dove dovete andare?”
Jake
e Scolo si guardarono, e si resero conto all’unisono di quanto fosse banale e
difficile quella domanda. Semplicemente, non lo sapevano, perché non se l'erano
più chiesto! Cosa stavano cercando, come lo stavano cercando? E pure quando
avevano trovato una traccia, come quella ragazza con l'orso Baluba attaccato ai
jeans, non erano riusciti a indicarla a Luca. C'era un problema di
comunicazione.
“Ehi,
vecchia lenza... stai pensando anche tu quel che sto pensando io, vero?”
“Sì,
Scolo. Siamo due nutrie col cervello di un piccione.” Jake non immaginava
quanto avrebbe dovuto ricredersi sul cervello dei piccioni… “Tra femmine e
brillantina, scartomerende e Ruttaforte, passeggiando per le vie del centro
sotto e sopra, abbiamo perso di vista il motivo per cui siamo arrivati fin
qui.”
“Eh,
già. L'avventura è forte, però… Emozionante, no?”
“Certo.
Ma l'avventura ha uno scopo, e il nostro è ritrovare il Malandato. Solo che ce
lo stavamo dimenticando...”
“Beh,
ce lo stiamo ricordando ora: dove dobbiamo andare?”
“Ehi,
dentoni! Io vi porterei sul tetto del Duomo, dove c'è la Donna d'Oro... però
temo che il vostro bipede sia rimasto incastrato...”
Jake
e Scolo si voltarono, e notarono che in effetti la fessura attraverso cui loro
avevano faticato a snutriare era invalicabile per Luca, nonostante lui,
ostinatamente, continuasse a premercisi dentro come se sperasse di sgusciarle
all'improvviso attraverso.
“O
lo abbandoniamo, o torniamo indietro. Per lui è adatto il passaggio d'uscita
dalla statua del cavallo, credo!”
Jake
osservò con affetto il suo amico Luca: “Torniamo indietro, Liscione. Sarà per
un'altra volta”.
Raf
era ammirata, e inquieta. Don Picciotto l'aveva portata a mangiare nel retro
d'un lussuoso ristorante nei vicoletti del centro, dove su un tavolino rotondo
era stato allestito un autentico banchetto per il boss dei piccioni e la sua
guardia d'onore. Pane, granaglie, verdurine, e una scodella d'acqua frizzante.
Il proprietario del ristorante, tra gli sguardi perplessi dei suoi dipendenti,
ogni giorno allestiva quel banchetto, quasi come fosse un dono votivo ai grigi
pennuti. Invece no. Non lo era. Era una semplice tangente. Era un pizzo. Perché
Don Picciotto gestiva il racket del guano in tutta la città, e in prima
persona, pardon, in primo pennuto nel centro di Milano.
Avevi
un concorrente scomodo sul marciapiede di fronte? In cambio di un pasto medio, Don Picciotto piazzava i
suoi sulle insegne del malcapitato avversario, che con un bombardamento a
tappeto dissuadevano anche il più determinato dei clienti. Qualcuno aveva il
vizio di posteggiare l'automobile proprio davanti alla tua vetrina? Non
l'avrebbe riconosciuta al ritorno, ricoperta di piume e cacca, che neanche
all'autolavaggio l'avrebbero fatto entrare. Insomma, Don Picciotto gestiva un
sistema efficace fondato su minacce fecali e favori, in cui, diciamo, un'ala
lava l'altra.
“In
fondo, mia cara Raf, se non ci si dà un'ala tra di noi, come possiamo
pretendere che la sorte ci protegga sotto la sua?”
“Certo,
Don Picciotto. Sono davvero ammirata. Noi cornacchie abbiamo uno spirito di stormo
molto forte, ma non abbiamo mai organizzato niente di tanto... acuto. Siamo
più...”
“Siete
più forti. Siete rozze, ma forti. Siete ladre. Rovistate nella spazzatura. Se
una di voi viene attaccata, tutte le altre corrono in suo soccorso, o lanciano
l'allarme. Vi osservo. Vi osservo da tempo. So che alle volte, quando trovate
uno dei miei a farsi gli affari vostri, gli fate fare una brutta fine...”
Raf
ebbe un frullo d'ali involontario: era tesa.
“Avevo
uno dei miei, dalle parti dell'Ospedale Niguarda. Una vedetta. Piccioncino, lo
chiamavamo, perché gli volevamo bene tutti. Era un po' fesso. Un giorno aveva
trovato un panino kebab intero su una panchina. Cominciò a beccarlo, ma quel
panino era già nel mirino di una coppia delle vostre. L'abbiamo ritrovato
conciato peggio del panino, povero Piccioncino. Siete voraci. E spietate. E
forti.”
Raf
tese le zampe: era pronta a spiccare il volo.
“Quindi,
mi sono detto, se cercassi di schiacciarvi... come vorrei, non te lo
nascondo... perderei. Ma se vi facessi un favore, e voi mi doveste un favore...
saremmo alleati, giusto?”
Raf
si bloccò, cercando di elaborare quella domanda: “Quindi lei vorrebbe...”
“Io
voglio quello che tu hai capito che io voglio. E se tu mi accontenti, io
accontento te.”
“Giusto...”
rispose Raf. Non aveva mai immaginato che un goffo piccione avrebbe potuto
farle così dannatamente paura!
“E
allora aspettiamo.”
Liscione
continuava a guidarli, ma stavolta si dirigeva verso l'alto. L'aria si faceva
sempre più respirabile, meno viziata. La lampada da cantiere continuava a
brillare a tratti, finché illuminò una botola sopra le loro teste.
“Io
non ce la posso fare, dentoni, ma forse Luca sì. Ci proviamo?”
Jake
percorse le scale a pioli che salivano fino alla botola, e prese a spingerla
con la testa. Luca rimase in fissa a guardarlo, e poi esclamò: “Bob, secondo me
non ce la fai. Lascia stare, che provo io ad aprirla...”
Jake
sbuffò, e fece spazio a Luca. Lui cominciò a spingere il pesante tombino,
dapprima con una mano, poi con tutte e due. Con un'immensa fatica riuscì a
sollevarne un lato di due dita, e facendo perno su un angolo lo scostò di un
paio di centimetri rispetto all'incavo in cui era poggiato. Dalla fessura
risultante, si poteva vedere il cielo stellato, offuscato dalla luce dei
lampioni. Le nuvole erano corse a dormire.
Il
tombino era troppo pesante per un uomo solo, ma Luca avvertiva la testolina di
Jake sostenerlo in quello sforzo sovrumano, e senza dare retta alle sue membra
che si strappavano nella fatica estenuante lo face scorrere ancora di lato,
piano piano. Riuscì a far passare una mano, poi riuscì a farne passare due, poi
lo scostò tanto da far passare la sua testa, e tirandola fuori vide un piccione
che lo fissava incuriosito. Si reimmerse. Fece uscire Jake, Scolo e Liscione,
che si misero a spingere il tombino con le loro zampe palmate, e finalmente,
dopo quasi due ore di sforzi, fradicio di sudore, con le membra indolenzite,
stremato, Luca riuscì a emergere in superficie, e scoprì di essere in piazza
del Duomo, a pochi passi dalla statua equestre di Vittorio Emanuele II,
ignorando di esserci passato sotto, anzi, praticamente dentro. E lì in piazza
del Duomo non c'era nessuno, a parte lui, tre nutrie, e circa cinquecento
piccioni che li fissavano grugando sommessamente.
Credette
di sognare, e, spossato, s'addormentò.
Capitolo 8
Che tratta di strani sogni e
curiose realtà
Ci
vollero i più prestanti tra i piccioni per riuscire a sollevare Luca e
adagiarlo tra i leoni del monumento equestre. Lo afferrarono per i vestiti, e
con gran sbattere d'ali lo spostarono nel sonno. Liscione sapeva in che guaio
erano finiti, conosceva la fama di Don Picciotto, ma non capiva perché fosse successo.
Jake e Scolo, invece, si convincevano sempre più di essere vittime di una brutta
intossicazione alimentare, e di avere più visioni di Pellicciotto Maculato
Decimo: cos'era quella piccionaia? Cosa volevano da loro?
“Gruuu! Gruuuu! Don Picciotto ha qualcosa da dirvi! È importante!” disse il
capo dei piccioni.
Liscione
era in allarme: “Dentoni! Cos'avete combinato perché don Picciotto invii
addirittura il suo tenente, Colombo, ad acciuffarvi?”.
“Non
lo sappiamo, nutria! Ma, per il manto della Castorina, non ci tireremo certo
indietro! Ascolta, pennuto! Cosa vuole il tuo capo Pellicciotto da noi?” chiese
Jake.
“Gru! Don Picciotto non vuole nulla, ma è
con qualcuno che vi cerca. Vogliono seguirmi, per cortesia?”
Il
tenente Colombo si levò in volo, e si diresse verso Galleria Vittorio Emanuele.
I piccioni liberarono un varco che indicò a Jake e Scolo la direzione da
seguire, e in mezzo a una coltre di grigi pennuti, di quel colore sporco da
volatile di città, le due nutrie giunsero a un arrampicamento che permetteva di
arrivare fin sotto la struttura di ferro e vetro che componeva l'ottagono centrale
della Galleria. E Jake e Scolo, che soffrivano un poco di vertigini, ne ebbero
una particolarmente forte, piacevole e stupefacente, quando videro, assieme a
quello che doveva essere Don Picciotto, Raf la cornacchia, e tra le sue zampe,
quello che non poteva essere altro che l'occhio di vetro del Malandato.
Luca
sognò. Sognò un falco pellegrino che dalle somme altezze del suo volo catturava
in uno sguardo tutta la città; sognò i gatti del Castello Sforzesco, che in
fila si recavano a rendere omaggio a quella ragazza così bella; sognò il
Malandato, ma quando non era per strada, lo sognò che stava seduto in un
ufficio, e sulla porta dell'ufficio stava scritto Presidente Dott. Malandato, e
alla scrivania della segretaria stava seduta una mucca, e alle pareti c'erano
foto di mucche in tuta da operaio, in grembiule bianco, vestite da macellaio
davanti a banchi senza carne e senza sangue, e il Malandato appoggiava la sua
penna, afferrava la sua valigetta e salutava la mucca segretaria, che
rispondeva con accento fiorentino, e salutava il portiere dell'ufficio che era
un bel bue con la divisa scura, quindi attraversava il cortile della ditta e
tutte le mucche in tenuta da operaio lo salutavano, mmuuuh dottore, e una volta fuori, il dottor Malandato saliva su un
tram, e a guidarlo c'era una mucca, che al posto del campanello suonava un
campanaccio; poi sognò di nuovo quella ragazza così bella; poi sognò di essere
circondato da piccioni; quindi si risintonizzò su quella ragazza così bella e
decise che poteva continuare a sognare lei...
“Raf!
Sei proprio tu?”
“Scolo!”
“Oh,
Raf, dopo l'altra sera in cui ti ho vista di sfuggita, ti ho cercata in ogni
frullo d'ali che abbia udito con queste orecchie pelose!”
“Romanticone!
E io ti ho cercato tutto il giorno, perché ho qualcosa che penso possa
interessarti...”
“Vedo!
Quello è l'occhio del Malandato!”
“Così
mi hanno detto.”
Jake
era impaziente: “E dove l'hai preso? Come l'hai trovato?”.
“L'ho
preso in un palazzo abbandonato.”
Jake
la incalzò: “Ma com'era? Dov'era? Il Malandato era lì?”.
Raf
gracchiò, nervosa: “Sarà meglio che vi ci porti!”.
Liscione
si guardava attorno, inquieto per la presenza di quello stormo di piccioni che
tubavano e lo fissavano con i loro occhi arzilli. L'umano Luca dormiva il sonno
dei giusti, spossato, e nel sonno sorrideva. Sognava il dottor Malandato che
scendeva dal tram e salutava un maiale, e il maiale ricambiava il saluto
levandosi il cappello, poi attraversava il cancello d'una bella villa, tutta di
legno, somigliava alla sua baracca sulla Martesana ma era più grande e più in
ordine, e una mucca con un rovo sulla testa e due vitellini, tutt'e tre eretti,
gli correvano incontro e lo abbracciavano, e lui sorrideva e finalmente
toglieva il cappello, e sotto il cappello aveva le corna, e infine si levava
l'occhio di vetro, e come fosse stata la proiezione di un film tutto si fece
buio, di nuovo.
Jake
era stato risoluto su quel punto: non sarebbe andato da nessuna parte senza
Luca. Erano amici e soprattutto avevano bisogno l'uno dell'altro. Scolo spiegò
a Raf che per Jake Luca era importante come lo era lei per lui, e così fu che
tornarono insieme dal ragazzo che dormiva tra i leoni vigili e immobili.
Liscione era ancora lì, ma più per curiosità che per altro. Don Picciotto si
accomiatò da Raf ricordandole che ora le cornacchie erano in debito con i
piccioni, e diede ordine al Tenente Colombo di ritirare gli stormi. Quando la
compagnia si riunì di nuovo, nel mezzo di piazza del Duomo, la notte cominciava
a farsi meno scura, e non v'erano più pennuti in vista, a parte Raf.
Liscione
chiese: “Allora?”.
“Allora,
abbiamo una traccia, gran dritto!”
“Bene!
Sono contento per voi!”
Jake
tastò con la testa le guance di Luca: preferiva che il giorno non lo
sorprendesse a dormire su un monumento in centro città, non aveva voglia di
ricominciare la giornata scappando dai ghisa. Luca brontolò un poco, ma infine
si svegliò: “Ehi, Bob, dai, ancora cinque minuti...”.
Ma
Jake insistette, e Luca si levò a sedere: “Cosa c'è di tanto importante da
svegliarmi ancora col buio, bestiaccia?”.
Aveva
detto “bestiaccia” con lo stesso tono con cui alcuni genitori definiscono “delinquente”
il proprio figlio prediletto. Poi lo notò. Stette zitto e immobile per qualche
interminabile minuto, quindi: “Ma quello è l'occhio del Malandato! Dove l'hai
trovato, Bob?”.
Luca
afferrò la sferetta di vetro e balzò in piedi. Mentre si allontanava dalla
piazza, cominciavano a sferragliare i primi tram. Scolo chiese: “Ma dove va?”.
“Temo
di saperlo...”
In
effetti Luca aveva desiderio di risintonizzarsi su quella ragazza così bella, e
decise di andarla ad attendere là dove l'aveva vista la mattina precedente.
Mentre si rigirava l'occhio del Malandato tra le dita, esclamò con trasporto entusiasta:
“Porca vacca!”.
“Porca
vacca? Non l'ho mai sentita, vecchia lenza...”
“Ma
dai, Scolo! Possibile? La tua nidiata da chi è stata allevata, da una coppia di
ratti?”
“Ehi,
vacci piano! Dico solo che è un animale di cui non ho mai sentito parlare...”
“Massì,
dai! Sono quegli ibridi che vivono fuori città, nelle campagne. La porca vacca
è un incrocio tra una mucca e un maiale. La mia santa mammetta mi raccontava
spesso degli animali che abitano là fuori, amico...”
“Cosa
vuoi dire?”
“Ce
n'è tantissimi: la vacca boia, per esempio, che decapita chi contravviene alle
regole della mandria, o la gatta da pelare, che è una gatta che si mangia come
un frutto.”
Liscione
guardò esterrefatto Jake: “Ma... dentone, parli sul serio?”.
“Certo
che parlo sul serio! Sono storie che mi ha raccontato la mia mammetta!”
“Beati
gli ingenui, perché per loro la Santa Nutria conserva le bucce della Grande
Anguria...”
Scolo
ci pensò su un momento, e concluse: “Per me può conservare il fondo di una Ruttaforte
Superpiù...”.
Capitolo 9
Nel quale i sentieri giungono al
bivio,
e i cuori s'incontrano
Novembre,
quella mattina, prese a interpretare magistralmente se stesso. Una
pioggerellina sottile e spietata bagnava il pelo delle nutrie in attesa, e Luca
si riparava come poteva sotto i rami di un albero. I gatti si lavavano le
orecchie, indispettiti da quell'umidità, tentando in ogni maniera di non
appoggiare le zampe a terra. Liscione rideva, borioso: “Ehi, milord, attento
che ti bagni le zampine!”.
Poi
d'un tratto l'attenzione di tutti, felini, roditori e umano, fu attirata dalla
caricatura di un ombrellino che tentava di proteggere il rovo impolverato che
era l'acconciatura della gattara, la moglie del Malandato: la donna si avvicinò
e celebrò tutto il suo rito composto di vaschette e crocchette di verdura e
proteine, croccantini vegani procuratile dal figlio, che in materia era un
autentico esperto. Con la gattara c’era anche Anna, che scorse con un lampo
negli occhi Luca, il quale non si nascondeva di certo, anzi mancava poco che
assurgesse in cielo per raggiunta beatitudine nella contemplazione della
ragazza. Quando la signora Malandato ebbe concluso, mentre gatti e nutrie, in
separate squadre, sgranocchiavano la colazione, si rivolse alla figlia: “Anna,
ho finito e ho freddo. Andiamo a casa”.
“Arrivo
subito, mamma, tu avviati pure, devo vedere una cosa...”
La
gattara si voltò e s'incamminò verso la fermata del tram, a Lanza, accanto al
teatro. Da lì di solito prendevano il 2 o il 14 fino a piazza Cantore, e
rientravano a casa. Anna, invece, si diresse senza indugi da Luca: “Ehi, tu!
Eri qui anche ieri, e anche ieri ci guardavi: c'è qualche problema?” chiese in
tono minaccioso.
Luca
arrossì, mentre Jake e Scolo sollevavano i musetti dalle vaschette – la fame li
aveva spinti a unirsi ai ganzi di Liscione –, e, farfugliando qualcosa, rispose
nella maniera più semplice ed efficace alla domanda della ragazza: disserrò il
pugno teso davanti a sé e le mostrò l'occhio di vetro.
Anna
lo fissò sbalordita. Scrutò Luca – aveva qualche anno più di lei, ma non tanti
–, e l'occhio che le porgeva. Aveva un solo modo per rispondere
all’interrogativo che le stava sgorgando dal cuore, e senza pronunciarlo
afferrò la sfera e le guardò attraverso: c'era! L'effigie miniaturizzata della
Madonnina si notava, al centro della pupilla, un vezzo che suo padre aveva
voluto concedersi quando ancora si chiamava Giovanni e le cose andavano bene.
“Questo è l'occhio di mio padre! Dove l'hai trovato?”
“Non
l'ho trovato. Me l'ha portato il mio amico Bob.”
“E
chi è Bob?”
“Il
mio gatto...” rispose Luca, puntando l'indice verso Jake. Anna guardò la
nutria, che parve farle l'occhiolino, e vide che non era un gatto, ma
era ormai abituata alle stramberie da clochard, tra Malandato, Prévert e
Jannacci.
“E
perché tu l'hai portato a me?”
“Non
te l'ho portato. Sono venuto qui per vederti.”
“E
perché?”
Luca
arrossì, e stavolta non rispose. L'imbarazzo gli suggerì di cambiare argomento:
“Tu... tu sei la figlia del Malandato?”.
“Cosa
te lo fa pensare?”
“Ti
ho sentita parlare con la signora col rovo sulla testa... e poi l'orsetto. L'ho
visto nelle foto del Malandato.”
Jake
si compiacque, e pure Scolo avvertì un moto d'orgoglio per il loro umano
preferito.
“Baluba.
È un caro ricordo della mia infanzia... di quando tutto andava bene. Ma ora che
c'entra?”
“Io
sto cercando il Malandato.”
“Perché?”
“Perché
lo conoscevo, e perché non è l'unico che è sparito, da noi al Refettorio.”
Anna
fissò Luca. Quel ragazzo era davvero strano, ma era l’unico collegamento con
suo padre. E, in fondo, lei era figlia di un senzatetto, quindi non era proprio
il caso di avere timori e pregiudizi. Ci rifletté ancora un attimo, poi decise
che valeva la pena di tentare.
“Come
ti chiami?” gli chiese.
“Luca.
Tu Anna, vero?”
“Sì. Bene, Luca... allora
potremmo unire le forze, se vuoi. Io sto cercando mio padre da giorni, ma non so
muovermi nei vostri ambienti. Tu potresti essermi di grande aiuto.”
Forse pioveva. Ma nel petto
di Luca sorse un sole caldo, primaverile, un sole che non sarebbe tramontato
con la notte.
Guardavo
Luca perdersi negli occhi di quella ragazza, e ammetto che fui un po' geloso.
In effetti, anche le mie prospettive si sarebbero fatte spinose, nel caso
l'accoppiata fosse azzeccata, perché sarebbe difficile spiegare a una femmina
di umano che io, Jake, sono una nutria perfino più educata di qualsiasi felino,
anche con un pedigree! C'è una sorta di preconcetto, per cui se nasci in un
certo ambiente ti viene preclusa la possibilità di frequentarne di
differenti... ma tutti dovremmo avere una possibilità, non credete? Chi può
dire che quel bassotto non sia un cane da guardia più efficiente di quel pigro
mastino, chi può dire che Scolo non sia più galante di un pavone, insomma, noi
scegliamo con le nostre azioni chi siamo, no? Signori si nasce, e io,
modestamente, lo nacqui. Ma vallo a spiegare a questa qui... Comunque, in quel
momento realizzai che la faccenda mi cascava a fagiolo: io e Scolo volevamo
seguire Raf fin dove aveva trovato questo benedetto occhio di vetro, perché, a
detta della pennuta, il luogo era interessante, e se questa Anna si fosse
accollata per un po' di tempo il buon Luca sarei stato tranquillo. Avrei
seguito una traccia, Luca ne avrebbe seguita un'altra, e soprattutto io avrei
potuto muovermi liberamente negli ambienti animalici, secondo la mia natura, e
Luca non avrebbe avuto appresso il fardello, dolce senza dubbio alcuno, ma
socialmente castrante, di due nutrie e una cornacchia da portarsi in giro in
centro o in tram. Ma come riuscire a far capire a Luca che avremmo dovuto
separarci?
“Ehi,
Bob, vieni qui: sentimi, amico, io oggi faccio un giro con Anna. Tu aspettami
qui, con gli altri gatti, sarai in buona compagnia. Poi passo a riprenderti,
tranquillo...”
“Domani
io torno qui con mia madre per servire la colazione ai padroni del Castello...” aggiunse
Anna.
“Bene!
Allora ci vediamo qui domani, Bob. E poi torniamo sul nostro divano a vederci
un bel dvd!”
“Ma
allora non sei un senzatetto!”
“Ho
il ponte, sopra la testa. Quando piove, io e Bob stiamo all'asciutto!” rispose
con orgoglio Luca.
Appena
Luca e Anna si furono allontanati in direzione della vecchia gattara, Jake si
voltò verso Scolo e Raf: “Allora, dove si va?”.
“Il
palazzo di cui vi parlavo è dalle parti della grande piazza dei treni” rispose
Raf.
“Credo
intenda la Stazione Centrale” si intromise Liscione con aria di superiorità.
“Ottimo!
E come ci arriviamo?”
“Non
è lontana, a essere sinceri... ma conosco un tram che ci arriva vicino!”
esclamò Liscione, che poteva ambire ad assessore nutrico ai trasporti animalici
pubblici milanesi.
Fu
così che, mentre Anna convinceva sua madre a rientrare a casa da sola,
adducendo la scusa di doversi fermare a fare due commissioni, Liscione
s'accomiatava caricando sull'1, tra un mare di gambe che salivano e scendevano
dal tram, Jake e Scolo, passeggeri senza biglietto con un appuntamento in
piazza Cincinnato, dove li avrebbe attesi Raf appollaiata, pardon,
accornacchiata sopra a un albero.
“Senti,
Luca: io vorrei tornare a fare un paio di domande a un amico di mio padre.
Forse la tua presenza, e quest'occhio, potrebbero stimolarlo a rompere il
silenzio: gli ho chiesto, come faccio ogni volta che succede, se sa dove si sia
cacciato mio papà, ma questa volta non mi risponde, si blocca, non riesco a
capire se non sa o se vuol fingere di non aver nemmeno sentito la domanda!”
“Chi
è? Magari lo conosco...”
“Vieni.
Abita in un'auto parcheggiata accanto alle rotaie lungo corso Sempione. Lui e
mio padre si frequentano visitando le biblioteche civiche, dove sfogliano i
giornali, si scaldano, utilizzano la toilette e leggono. Possono addirittura
usare il computer!”
Luca
notò che Anna lo trattava con cordialità, e soprattutto, senza alcuna
diffidenza. Anzi, si rivolgeva a lui con estrema confidenza. La cosa non gli
dispiacque, e non stette a interrogarsi, come facevano le persone che li
vedevano conversare per strada, insieme sotto l'ombrello di lei, se lo facesse
per compassione, per senso di superiorità, per quella spigliatezza che ai
ricchi viene donata dal sentir di fare una buona azione. Luca non si interrogò,
e fece bene, perché sarebbero state speculazioni inutili. Anna, semplicemente,
non aveva pregiudizi, perché era figlia di un mancato luminare divenuto
clochard, di una signora borghese tramutata in gattara, sorella di un influencer dei social network barbuto e
risvoltinato... Andiamo, se Jake e Scolo l'avessero invitata a sgargarozzarsi
una Ruttaforte, Anna avrebbe accettato di buon grado, senza badare a dentoni,
pelo o dita palmate!
In
piazza Cincinnato, la voce di donna pronunciò il nome della fermata e Jake e
Scolo guizzarono fuori dal loro nascondiglio tra i borsoni di plastica di un
ragazzo di colore che vendeva abusivamente borse di marca false e i sedili di
legno del vecchio tram. Appena furono sul marciapiede, tra gli sguardi
inorriditi di alcune signore e gli abbai di un paio di cani in giro per
l'abituale minzione, udirono il Cra! Cra! concordato con Raf e seguirono
il suo volo zampettando veloci, velocissimi! Non ebbero il tempo di
preoccuparsi della gente che gridava o rideva alla loro vista, perché non
potevano perdere la loro guida, e, dopo aver attraversato la grande piazza
antistante la stazione, corsero ancora e giunsero ai piedi di un grattacielo
abbandonato e transennato. Loro non potevano sapere che quella era la Torre
Galfa, situata tra via GALvani e via FAra, in vista di alcuni lavori di riqualificazione.
Però sapevano che Raf aveva trovato lì l'occhio di vetro del Malandato.
Era
un tipo bizzarro. Luca non l'aveva mai visto. Teneva in mano una candela
spenta, la miccia annerita, la cera colata lungo i lati. Chiuse a chiave la
portiera dell'auto, si allontanò dal veicolo di qualche passo per poi bloccarsi
all'istante. Sembrava che una forza soprannaturale, forse sua madre, chi può
dirlo, lo avesse chiamato a rapporto. Fece un passo all'indietro calpestando un
fazzolettino che qualcuno aveva gettato a terra senza curarsi delle locandine
sull'inquinamento ambientale che lo osservavano rosse dalla rabbia dal cestino
dei rifiuti accanto alle panchine poco lontane. Borbottavano furibonde per
l'ennesima azione incivile che portava sempre più vicino il mondo allo
sbaraglio. Parevano delle acide vecchiette inviperite. Tornò alla sua Punto
grigia e provò a tirare la portiera. Era chiusa. Girò le chiavi nella serratura
e l'aprì. La chiuse nuovamente. Provò ancora la maniglia. Rimase chiusa. “È
chiusa” disse poco convinto. Tirò per l'ennesima volta lo sportello.
“Sì,
è chiusa” conferò Anna.
Fermo
si bloccò. Rimase immobile per qualche decina di secondi, e, come se non
muoversi lo avesse reso invisibile, tentò di sgusciare via da quell'incontro
inatteso.
“Te
ne vai, Fermo? Ho portato un amico, volevo presentartelo.”
“Non
mi interessa. Ho già degli amici” rispose Fermo senza guardarli. Pareva un
giocatore troppo cresciuto di Un-due-tre stella.
“Dai,
aspetta: guarda cos’ha il mio amico!” disse Anna, e mostrò, reggendolo tra
indice e pollice, l'occhio di vetro di suo padre.
Per
Raf la salita non fu faticosa e durò pochi secondi. Per Jake e Scolo fu più
impegnativa. La torre era inagibile, piena di ostacoli, di strutture cedevoli,
pericolose. Dei giovani e meno giovani con le scatolette luminose marchiate
dalla mela morsicata l'avevano occupata, anni prima, ed erano stati sloggiati
proprio in virtù del pericolo, pericolo che in quel caso, per i politici
locali, si configurava nel rischio di un mandato guadagno. Salirono fin quasi
in vetta, dove si poteva ammirare la città ammantata di grigio e acquerugiola,
vasta, immensa per due giovani nutrie. E mentre le case e le persone e le auto
si facevano più piccole ai loro occhietti, finalmente sentirono quel Cra!
Cra! che segnalava il raggiungimento della meta.
Fermo
insisteva nella sua pantomima. Ora giocava alle Belle statuine.
“Dai,
Fermo, piantala! Questo è l'occhio di mio padre! Vuoi, per una buona volta,
dirmi semplicemente se sai qualcosa?”
Ma lui
non rispose, bensì aguzzò lo sguardo, oltre Anna e Luca, oltre la carreggiata,
verso il marciapiede opposto.
“Ecco,
nutrie: l'abbiamo trovato qui!”
Jake
e Scolo entrarono in una stanza che era stata un ufficio ai piani alti. Dalla
parete vetrata novembre continuava a interpretare magistralmente se stesso. Ma
Scolo aveva occhi solo per Raf.
Jake,
invece, che era una nutria supponente e forse non dritta come Liscione, ma
molto in zampa e con uno spiccato senso del dovere nei confronti del suo amico
Luca, cominciò immediatamente ad analizzare l'ambiente: c'era una scrivania con
dei fogli sopra. C'era una coperta. C'erano delle bottiglie di plastica vuote,
un cartone di vino rosso a metà, degli avanzi di scatolame. C'era una lavagna,
con disegnata sopra e cancellata in parte, una mappa simile a quella che aveva
trovato Luca tra le carte del Malandato. C'erano candele, e una torcia a
batterie. E poi c'erano dei dischi. Dei vinili, 33 giri, sparsi con ordine sul
pavimento. E tra i dischi c'erano i topini.
Luca
notò lo sguardo allarmato e attento di Fermo passargli oltre, e si voltò a
seguirlo. Anna fece lo stesso, ma non poté riconoscere il volto dell'uomo che
sopraggiungeva, in compagnia d'un altro, dal marciapiede di fronte. Erano
entrambi in borghese, ma ostentavano un distintivo agganciato alla cintura.
Quello che Luca non conosceva indossava un completo modesto, mentre l'altro non
l'aveva mai visto così pulito. Era un volto conosciuto, conosciutissimo, per
Luca, perché da qualche settimana mangiava al Refettorio con lui e gli altri
miserabili: Giorgio, conosciuto da tutti come Quellonuovo. Stava attraversando
di corsa, e aveva un distintivo. Intimò a Fermo di fermarsi, ma Fermo non era
mai stato così dinamico e rapido e si volatilizzò.
Quellonuovo
raggiunse affannato Luca e Anna. Come se niente fosse, Luca lo salutò.
“Ciao,
Quellonuovo!”
“Ciao,
Luca... cosa fai qui?”
“Sto
cercando il Malandato. E tu?”
“Anch'io...
signorina, lei è?”
“Io
sono Anna Belotti, la figlia di quello che voi chiamate il Malandato! E lei
invece chi è?”
“Io
sono Giorgio. Quello che sta cercando suo padre e gli altri.”
“Beh, mi sa che continuerò a chiamarti
Quellonuovo” considerò Luca.
“Ehi,
vecchia lenza... hai visto come si sono spaventati, quei topastri? Facciamo
proprio brutto, ormai!”
“Poveretti,
erano così piccoli che potevano nascondersi sotto il tuo culone, Scolo!”
“Uh,
che malsano accomodamento! Comunque, che te ne pare?”
Jake
rifletté: “Il Malandato usava questo posto per fare qualcosa. Era il suo nuovo
rifugio. Ma perché così appartato? Non voleva essere raggiunto. Raf! Dove avete
trovato l'occhio?”.
“Lì
in terra... tra quei dischi.”
Jake
osservò i dischi. Erano piatti neri, con dei forellini, ma soprattutto, erano
stati divorati ai bordi, rosicchiati dai topini.
“Perché
il Malandato veniva qua? E cosa faceva con questa roba?”
VIA AI NUOVI SUGGERIMENTI! ASPETTIAMO I VOSTRI SPUNTI SU
COME CONTINUARE IL ROMANZO ENTRO LE ORE 12 DEL 26 APRILE QUI, SU FACEBOOK.COM/STRASTORIE O VIA MAIL A STRASTORIE@GMAIL.COM!
TROVATE IL TESTO DELLA PRIMA PRIMA PUNTATA QUI:
http://www.strastorie.it/2018/03/strastorie-extralarge-lincipit_14.html
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E DELLA SECONDA QUI:
http://www.strastorie.it/2018/04/strastorie-extralarge-seconda-puntata.html
E LE ISTRUZIONI SU COME PARTECIPARE QUI:
Ecco il suggerimento dato da Simona durante il terzo incontro live. Simona ha proposto di reinserire nella storia uno dei protagonisti dell'incipit, l'ex professore diventato clochard Carcarlo, uscito di scena su un'ambulanza, dopo aver dato in escandescenze al Refettorio Ambrosiano, per un trattamento sanitario obbligatorio. Ha suggerito che la banda umano-nutrica Jake/Scolo/Luca lo vada a recuperare al Niguarda e, magari con la complicità di qualche infermiera compiacente e amante delle nutrie, lo liberi. Carcarlo potrebbe sapere qualcosa di importante per la risoluzione del mistero, e la sua copia dei "Miserabili", prestata al Malandato e sparita con lui, potrebbe ritornare prepotentemente in scena...
RispondiEliminaEcco lo spunto di Pier, ricevuto via mail:
RispondiEliminaEppure quella X sulla mappa aveva non so che di famigliare.
accanto alla X vi era un doppio segno di quelli che gli umani usano spesso per riconoscere le case o le auto o ancora per altri usi che il mondo nutria ancora non ha decifrato.
Fatto sta i segni erano questi: 87.
Il Liscione quei segni li aveva già incontrati.
Ma dove?
Decise di chiamare la sua banda e dopo una lunga consultazione il gruppo fu d'accordo.
La nutria GIGINO detto il SAPIENTONE o per altri il SECCHIONE o per altri ancora LINGUALUNGA era la memoria storica del gruppo e conservava un discreto numero di reperti umani che catalogava con attenzione.
(Certo era l'opposto del LISCIONE!)
Tra questi vi erano numerosi fogli o come li chiamavano gli umani libri, riviste, pubblicazioni.
Ne portò una (rif. Fatto Quotidiano) che diceva così:
Milano, ecco il bunker 87: rifugio antiaereo “scoperto” grazie a un racconto del regista Ermanno Olmi
Certo, ora il LISCIONE aveva individuato esattamente a cosa si riferivano quella X ed i segni.
Sapeva perfettamente dove andare e quale strada, o meglio cunicolo, prendere per arrivarci.
Avrebbe portato anche l'umano.
Quel bunker era stato territorio di scontro con una gang molto agguerrita quella dei COLOMBIANI, nutrie senza principi, sempre fuori di testa, che portano sul capo una specie di bandana colorata.
Ovviamente il gruppo del LISCIONE aveva avuto la meglio e per festeggiare la vittoria era stato organizzato proprio lì un NUTRIA-RAVE che era continuato per giorni ...
Ma quella dei COLOMBIANI è un'altra storia...