mercoledì 14 marzo 2018

StraStorie ExtraLarge – L'incipit

STRASTORIE EXTRALARGE
UN ROMANZO SCRITTO ATTRAVERSO L’INTERAZIONE CON I LETTORI DA RICCARDO BESOLA, 
ANDREA B. FERRARI E FRANCESCO GALLONE

Guendalina Ravazzoni, Le pagine in testa

Capitolo 1
in cui conosciamo Luca, Jake e i loro luoghi

San Martino incontrò un mendicante nudo, e per ripararlo dal freddo tagliò con la spada a metà il proprio mantello, così che questi potesse coprirsi. Poco più avanti incontrò un altro povero nudo – a quanto pare era di moda tra gli emarginati circolare in tenuta adamitica a quell'epoca –, e San Martino gli diede l'altra metà del proprio mantello. Dio, impietosito dal gesto, o inorgoglito, chissà, fece splendere il sole in cielo concedendo al santo in viaggio una giornata mite. Fu così che nacque quella che oggi i cristiani chiamano “Estate di San Martino” e gli anticlericali definiscono all'americana “Estate Indiana”, per connotare il fenomeno climatico dell'11 novembre di tratti non divini, bensì esotici.
Tutte queste cose Luca non le avrebbe sapute se non gliele avesse raccontate il parroco di Greco, il prevosto della chiesa di San Martino, durante uno dei suoi pranzi al Refettorio Ambrosiano, la mensa per i poveri ospitata nei locali della parrocchia, dove senzatetto, senza fissa dimora, clochard, barboni, furbacchioni e persone in grave difficoltà economica trovavano un pasto caldo ad accoglierli a pranzo, da lunedì a sabato.
Alcuni volontari si impegnavano a cucinare per loro e servirli, cosicché, come sosteneva qualche ottusa malalingua, ci si trovava di fronte al paradosso che i morti di fame in fin dei conti venissero serviti e riveriti come al ristorante, mentre chi andava a lavorare e tornava a casa la sera tardi e stanco se voleva mangiare doveva cucinare.
Luca frequentava il Refettorio da pochi mesi. Prima non lo conosceva e si arrangiava, e prima ancora non ne aveva avuto bisogno, perché aveva una casa e una mamma che gli preparava il pranzo e la cena. Luca era un ragazzo che la gente reputava sfortunato, ma se fosse stato interrogato in proposito, avrebbe risposto che le uniche cose brutte che gli erano capitate erano state la sparizione di suo padre, quando era piccolo, e la morte di sua madre, cinque anni prima. Per il resto, non pensava di essere sfortunato, perlomeno non come intendeva quella gente.
Luca non pensava di essere ritardato, come quelli credevano, non pensava di essere stupido, non pensava che la sua situazione fosse infelice. Certo, da quando non aveva più una casa in cui dormire alle volte aveva sofferto il freddo, e da quando non aveva più un lavoro alle volte aveva sofferto la fame, e da quando non aveva più un bagno alle volte gli era capitato di sentire un fastidioso prurito, però ricordava di avere avuto problemi differenti ma equivalenti anche prima, quando quella gente lo salutava ancora con simpatia e non con pietà come faceva ora: al lavoro doveva sopportare l'aria condizionata, quell'aria artificiale che lo faceva tossire, doveva vestirsi in una maniera che lo faceva sentire scomodo e a disagio per tutto il giorno, doveva sopportare le sgridate dei colleghi, quella rabbia umiliante perché trattenuta, come se lui non capisse che loro pensavano che lui non capisse.
Quando sua madre era morta, e neanche tranquilla perché continuava a chiedere chi si sarebbe preso cura di suo figlio, Luca era rimasto solo. O meglio, al funerale aveva creduto di avere una moltitudine di amici e di persone che lo avrebbero aiutato, e qualcuno, per un po', l'aveva fatto. Poi le cose si erano complicate, i servizi sociali avevano cominciato a ospitarlo in case di accoglienza, quindi in piccole comunità, ma Luca non era scemo, avrebbe solo voluto poter continuare la sua vita così com'era stata fin lì. Così aveva cominciato a scappare dalle strutture preposte ad assistere le persone come lui. Il problema era che nessuno si rendeva conto di due questioni: la prima, che lui non aveva bisogno di essere assistito; la seconda, che non esistevano persone come lui. Esisteva lui. E per lui, lui era unico.
Era finito così a vivere per strada, o meglio, lungo il naviglio della Martesana. Era lì che aveva incontrato il suo unico amico, il solo che lo comprendesse: Bob. Il suo migliore amico. Che però si chiamava Jake. Ma ci sarà occasione più avanti per approfondire questa faccenda.

Era, appunto, una tiepida mattina di novembre, e Luca, come quasi ogni giorno, era andato a pranzo al Refettorio. Il campanile di San Martino aveva battuto i dodici rintocchi da circa mezz'ora, quando nel Refettorio Ambrosiano Carcarlo cominciò a brontolare tra sé e sé.
Carcarlo era un ex professore di letteratura italiana in uno storico liceo della periferia milanese. Prima di finire a vivere per strada, quando ancora gli alunni lo chiamavano “Prof” ed era la moglie a cucinare per lui, si chiamava semplicemente Carlo. Perché non balbettava. Poi un giorno successe che, mentre guidava, per lasciare spazio a una bicicletta che aveva intravisto nello specchietto retrovisore destro della sua Fiat 127 d'antiquariato, s'era arrestato al semaforo in mezzo, né a destra, né a sinistra, senza preoccuparsene, a dire il vero, date le condizioni di traffico scarso e scorrevole.
Non dello stesso parere era il guidatore della Honda Jazz che giunse alle sue spalle. L'uomo, sui quarant'anni, insistette in una manovra di inserimento sulla destra dell'auto di Carcarlo, sorpassandolo a fatica e soprattutto insultando il professore con ogni sorta di epiteto. Carcarlo, esterrefatto, osservava l'altro imbestialirsi sempre di più mentre si incastrava tra la sua 127 e le macchine parcheggiate. Il professore sospirò uno “Stupido” che l'altro raccolse molto sul personale, calando come gli Unni dall'auto, estraendo Carcarlo a forza dall'abitacolo della sua antica utilitaria, e percuotendolo al punto da lasciarlo esanime a terra.
Il professore non si riprese mai più dallo choc. Cominciò a balbettare e a soffrire di attacchi di panico. Non osava più rivolgere parola a nessuno, nemmeno ai suoi allievi. Perse la cattedra, perse il rispetto di tutti, e sua moglie perse la pazienza. Fu proprio dopo una sfuriata, pur comprensibile, di quest'ultima, che Carcarlo andò via di casa e si ritirò a vivere per la strada, dove nessuno gli rivolgesse la parola. Aveva un carrello del supermercato pieno di vecchi libri, coperti con dei cartoni e del cellophane. Nel corso degli anni aveva imparato dove andare a mangiare, e uno di questi luoghi era la mensa di piazza Greco.
Una cosa che Carcarlo non aveva imparato, però, è che un libro, se lo presti, s'offende e poi non torna più indietro. Aveva prestato la sua copia de I Miserabili, fogliettone cui era molto affezionato, al Malandato, uno dei pochissimi barboni con cui ogni tanto intrattenesse qualcosa di simile a una conversazione. Anche il Malandato aveva studiato, e aveva insegnato, ed era questo il motivo per cui Carcarlo si era fidato a prestargli un prezioso volume della sua biblioteca a rotelle. Ma era da un paio di giorni che il Malandato non veniva in Refettorio. Era sparito. E con lui, il libro di Carcarlo.
Dunque era questo il motivo per cui Carcarlo brontolava. Un cucchiaio di tortellini, e un paio di sommesse imprecazioni. Un cucchiaio di tortellini, e “L'ha fa-fatto appo-posta, di sicuro!”. Un cucchiaio di brodo, col risucchio, e “E chissà-sà che ci fa... maga-gari non capi-pisce, magari lo bru-brucia per sca-caldarsi... maga-gari lo usa quando va al ba-bagno, per pu-pulirsi...”
Carcarlo esponeva a se stesso i propri timori, e Luca, di fronte, al tavolo accanto, lo fissava come se niente fosse, mentre masticava tranquillo i propri bocconi.
Di Luca i volontari sapevano che aveva poco più di trent'anni e non viveva per strada da moltissimo; non mendicava, gironzolava per la città e dormiva su un divano sotto al ponte ferroviario sulla Martesana, all'altezza di via Sammartini. Sicuramente aveva una storia alle spalle, ma nessuno dei volontari la conosceva, nonostante fosse un tipo affabile, socievole, forse non un grandissimo conversatore, ma di certo non un ragazzo introverso o riservato. Semplicemente, non l'aveva raccontata a nessuno, quella storia, e forse nessuno gliel'aveva nemmeno chiesta.
E ora Luca era là, che fissava con indifferenza Carcarlo, deglutendo con calma, mentre quello s'arrabbiava per davvero e iniziava ad alzare la voce con i volontari che passavano a sbarazzare i piatti del primo vuoti, per poter servire i secondi. Il Professore si infuriava sempre di più perché non poteva capacitarsi d'essere cascato in quella che era stata sicuramente una truffa da parte del Malandato, che gli aveva portata via la sua copia de I Miserabili, magari per vendersela al Libraccio, e quella invece era un'edizione particolare, preziosa, del 1946, e dove la poteva ritrovare...
I volontari servirono la frittata con gli spinaci e l'insalata di cavolo cappuccio di contorno. Luca era goloso di frittate, ma ne tagliò un pezzetto e se lo infilò in tasca, prima di sbranare il resto e tornare indifferente a osservare Carcarlo, che ormai urlava e invocava la giustizia degli dèi, le Erinni, il Castigo, per quel disgraziato del Malandato (che, a vederlo, disgraziato lo era davvero), sparito da due giorni coi suoi Miserabili. I volontari non sapevano come comportarsi con Carcarlo. Decisero di chiamare il parroco.
Don Giuliano, uomo di fede e di grazia, ringraziò il Signore per averlo messo alla prova anche quel mezzogiorno e scese di sotto, nel Refettorio.
Le maniche della camicia color grigio prete (clergie, ma solo per le persone alla moda) arrotolate fino ai gomiti, la pancia appena più abbondante del dovuto e quel sorriso ironico alla Don Camillo, lo facevano sembrare un operaio piuttosto che il parroco, ma la sua voce ferma e mai affannata lo definiva come la guida di quel gregge di pecoroni più o meno smarriti.
Don Giuliano si avvicinò conciliante a Carcarlo che, per niente intimorito dall’arrivo del prete, aveva, se possibile, alzato ulteriorimente il volume e il tiro delle sue invettive e stava già scomodando il pantheon di Asgard, avendo esaurito gli dèi greci e i loro omologhi latini.
Don Giuliano prima lo blandì con le buone, si sedette al suo fianco, gli fregò anche un po’ di frittata dal piatto, per scuoterlo, ma vedendo che non c’erano santi (e lui, uomo di chiesa, era ben consapevole di cosa stava dicendo), passò alle cattive. Lo minacciò di cacciarlo dal Refettorio, gli disse che avrebbe sospeso la sua tessera alla biblioteca parrocchiale, ma Carcarlo continuava a non sentire ragioni.
“È un com-complotto! Il Malandato mi ha fre-fregato I Miserabili, e so-sono sicuro che si è me-messo d’accordo con voi, ille-illette-terati e sfaticati, ma il Prof Car-Carlo non si fa in-infinocchiare dalle vostre giu-giustificazioni con la firma falsa. Io li co-conosco a uno a uno i vostri genitori. Vedrete al prossimo ri-ricevimento!”
Luca, quasi assente, o forse assorto nei suoi pensieri, guardava Carcarlo e don Giuliano e sgranocchiava placido il suo cavolo cappuccio, un po’ troppo abbondante d’aceto, ma certamente gradevole.
Il Prof continuava a gridare e ad agitarsi. Pezzi di frittata e un mezzo bicchiere d'acqua finirono per aspergere le vesti di tre volontarie che cercavano di contenerlo e una delle preziose sedie donate da una nota casa di design.
“Basta” disse don Giuliano alzandosi sconsolato “chiamiamo i servizi sociali. Mi sa che è lavoro per loro” e si avviò verso la canonica con il cellulare appoggiato all’orecchio.
Luca, d’improvviso, si rianimò: iniziò ad ingozzarsi, divorò un ultimo rimasuglio di frittata, ingollò l’acqua che aveva di fronte, s’infilò in bocca il francesino che fino a lì aveva appena sbocconcellato e lasciò il resto del cavolo cappuccio. Si alzò e, come in trance, passando dal bancone dove venivano preparate le pietanze per essere servite, prese il suo budino al crème caramel. Fuori, in piazza Greco, schioccò le dita di una mano come per darsi il ritmo e si diresse a grandi falcate verso via Finzi, dove una vecchia cascina stava per essere trasformata in una serie di appartamenti moderni, ma fumigati d’antico, come le pergamene che s’invecchiano con il tè. Un'ombra si destò e da dietro la fontanella verde iniziò a corrergli dappresso.
Quindici minuti più tardi, Carcarlo venne caricato su un’autoambulanza diretta all’ospedale Niguarda per un trattamento sanitario obbligatorio che gli avrebbe obnubilato la mente per qualche tempo, ma almeno gli avrebbe impedito di soffrire coscientemente per i suoi Miserabili perduti.

Ehi, questa è la maxistoria di come la mia vita sia cambiata, capovolta, sottosopra sia finita: mi chiamo Skrriekkhh, ma per comodità potete chiamarmi Jake la Nutria, o come fa il mio amico, Bob. Sono una nutria, e sono molto più intelligente di quanto possiate pensare – tutte le nutrie lo sono, ma non per vantarmi io lo sono di più –, sicuramente più di Luca, il mio amico umano. Luca mi chiama Bob perché è convinto che io sia un gatto come quello che fa amicizia con un drogato in un film che lui ama rivedere assieme a me, pratica che trovo certamente molto romantica, ma pure avvilente, perché per quanto Luca sia un po’ stupido, non riesco a capacitarmi di come non riesca a notare la differenza che passa tra un roditore e un felino, ma amen.
Faccio parte di quella nutrita famiglia di nutrie che regnano incontrastate nel tratto di Martesana che va dalla chiusa del Lambro giù in via Idro, fino a via Melchiorre Gioia, dove la città che punta all’Europa si è ingoiata anche il naviglio e l’ha coperto d’asfalto e traffici.
Ho incontrato Luca ormai un paio di anni fa e ho imparato a prendermi cura di lui, perché è un ragazzo un po’ particolare e io una nutria molto sensibile.
Luca, allora, parlava poco e passava la gran parte del suo tempo accoccolato sul divano ad ascoltare il naviglio e a guardare i dvd. Ne ha una collezione ragguardevole, sgraffignata qua e là dalle bancarelle o che ha tenuto con sé quando, dopo la morte della madre, ha faticato a reggere il ritmo frenetico della città ed è finito senza un tetto e senza un lavoro sotto al ponte di via Sammartini. Mi ha detto che da casa si era portato solo il divano e qualche dvd. Non ho mai voluto sapere altro, perché ognuno ha diritto alla sua riservatezza. Luca guarda le copertine dei dvd e legge le trame sul retro delle confezioni per immaginare i finali, perché il bello è il viaggio, mica vedere gli attori dentro a una scatola piatta.

Jake la Nutria raggiunse il suo amico all’altezza del cavalcavia di via Finzi. Lì la ferrovia e il naviglio disegnano un intreccio di linee così parallele da ingarbugliarsi in un infinito raccordo di binari, ponticcioli e anse, protette dal campanile illuminato della chiesa di San Martino e dai ricordi dei vecchi borghi di Gorla e Greco.
“Vieni, Bob” disse Luca rivolto a Jake, e s’infilò nella verzura scura che bordeggiava il naviglio e la strada asfaltata, proprio di fronte alle case rosse che un tempo avevano ospitato le famiglie dei ferrovieri di stanza alla stazione Greco-Pirelli. Jake seguì il giovane uomo con un sogghigno celato dagli incisivi giallissimi.
Luca si nascose, tutto tremante per la paura, nel canneto che stava sulla sponda opposta al divano, riparato dal ponte. Teneva la testa rintanata in mezzo alle ginocchia, avvicinate al petto e strette insieme dalle braccia. Il suo respiro era affannoso per la corsa e per la strizza, e Jake capì che c’era bisogno di lui. Non sapeva il perché, ma aveva notato che le ambulanze e i litigi incutevano a Luca terrore. Così, quando nel mezzo della fuga aveva sentito le sirene dirigersi verso il Refettorio, aveva capito.
Luca era così spaventato che aveva preferito rifugiarsi nel canneto, invece di fare il giro largo da viale Monza e imboccare la ciclabile che scorreva sulla sponda opposta della Martesana.
Quando faceva così, solo una cosa poteva tranquillizzarlo.

Jake raspò un lembo dei jeans di Luca e si tuffò nel naviglio. Raggiunse il divano e tirò fuori qualcosa da una borsa sportiva biancoazzurra. Poco dopo, era di nuovo accanto al suo amico e gli porgeva un dvd.
Luca lo prese fra le mani, fece accomodare Jake la Nutria fra le sue gambe, gli diede il pezzo di frittata che aveva conservato per lui e insieme, finché non calò il sole, guardarono un altro grande classico: La leggenda del Santo Bevitore.


Capitolo 2
In cui Jake e Scolo entrano nel covo del Malandato

O il tempo era diventato ateo, o aveva preso troppo alla lettera il racconto dell’Estate di San Martino che contemplava una giornata molto mite, ma non faceva menzione di come fosse andata la notte.
Nel canneto Luca aveva sofferto un freddo cane, contro il quale la pelliccia stopposa di Jake aveva potuto opporre solo una tiepida resistenza.
Jake la Nutria conosceva le manovre del Generale Inverno, ma non sospettava che quest’anno avrebbe sferrato il suo attacco alla Martesana così in anticipo.
Luca tremava come una foglia e faceva frusciare con i suoi deliri il minuscolo canneto appoggiato su quell’ansa del naviglio che qualcuno chiamava il fiordo di Milano.
Jake gli era stato vicino per tutta la notte e aveva annotato nella sua testolina pelosa e velocissima quello che era uscito delle labbra violacee di Luca. Il suo amico umano aveva parlato del Malandato che era sparito e di qualcuno che aveva rubato dei miserabili, forse un professore.
Ora, Jake la Nutria era una nutria fuori dal comune, ma sicuramente non aveva contezza di quell’immenso autore che era stato Victor Hugo, non fosse altro perché nelle centinaia di traduzioni del suo libro mancava ancora – quale popolo barbaro siamo divenuti in appena due secoli – una trasposizione in “nutrico”. Jake quindi fece di tutti i barboni un fascio e intese che dovessero esserne spariti un po’.
Luca conosceva il Malandato, l’anziano con la benda che gli copriva l’occhio di vetro, e aveva detto a Jake, un giorno in cui era in vena di confidenze, che il vecchio aveva un covo giù dopo l’anfiteatro, fra il ponte Giallo e quello di via Ponte Nuovo. Jake aveva passato il resto della notte in trepida attesa del mattino, perché temeva che qualcuno potesse davvero far sparire anche Luca che era a tutti gli effetti un barbone. Anzi, il suo amico barbone.
Si dice che l’ora più buia della notte sia quella che precede l’alba, ma l’alba di Luca arrivava sempre con un po’ di ritardo rispetto a quella di Jake, così il giovane senzatetto si svegliò per un raggio di sole sfacciato che fece capolino fra il ponte della ferrovia e il traffico, frastornante, sulla strada che passava dietro l’ansa del naviglio.
Jake la Nutria aveva previsto tutto questo e si era premunito di portare nel canneto il sacchetto di plastica dove lui e Luca tenevano i biscotti e i succhi di frutta con i quali facevano colazione. Li recuperavano dagli avanzi delle merende della scuola elementare di via Sant’Erlembardo, poco distante. Era facilissimo.
La scuola era nel bel mezzo di un vecchissimo parco, un tempo appartenuto alla famiglia Finzi, e le mura del parco costeggiavano la strada che portava a Greco, proprio alle spalle del canneto. Jake e Luca avevano trovato un pertugio nelle spesse mura e vi si intrufolavano verso la fine del giorno, quando il parco chiudeva. Di lì, correvano indisturbati fino ai gabbiotti dei rifiuti dove venivano scaricate le merende mangiate a metà o solo aperte dagli annoiati cuccioli degli uomini. Quei gabbiotti erano una miniera d’oro e rappresentavano una delle loro primarie fonti d’approvvigionamento. Jake la nutria le chiamava le “scartomerende”.
Luca guardò Jake e lo salutò con affetto: “Buon giorno, Bob. Freddo cane, vero?”.
Lui annuì e diede una codata al sacchetto per farsi aprire una scartomerenda che conteneva dei biscotti. Non che non fosse in grado di servirsi da solo, ma aveva capito che al suo amico faceva molto piacere occuparsi di lui e lo lasciava fare.
Jake mangiò i biscotti e si buttò in acqua per raggiungere il divano. Sapeva anche che dopo colazione, così come dopo qualsiasi attività, Luca saltava il tempo e stava più o meno immobile per una quindicina di minuti. Poi ripartiva, lento come sempre, fino allo stop successivo che coincideva con il pranzo al refettorio.
In quel quarto d’ora Jake approntò il piano per provare a capire come rasserenare e proteggere Luca.


Non potevo permettergli di passare un’altra nottata nel canneto, non credete?
E non potevo nemmeno permettere che, fra tutti i senza fissa dimora di Milano, sparisse anche lui, no?
Quindi come ogni nutria che si rispetti dovevo prendere in zampa la situazione e cercare di capire cosa caspita lo avesse agitato così tanto al Refettorio.
I deliri di Luca riguardavano il Malandato che aveva una baracchina sul naviglio e i miserabili, che per quanto mi riguarda sono la stessa cosa. Cioè, il Malandato era certamente un miserabile come gli altri, anzi un poco di più, quindi se la mia intelligenza non m’ingannava – e non lo fa quasi mai – un pezzo del mistero che riguardava il Refettorio era legato proprio al Malandato.
Gli altri miserabili, rubati o venduti, avrebbero dovuto aspettare così come il professore che, se tanto mi dava tanto, era quel tizio strambo che il giorno prima era stato caricato sull’ambulanza, mentre noi scappavamo.
Quando una nutria ha a che fare con un mistero misterioso e ha quasi un quarto d’ora da far passare, la nutria in questione elabora un piano e lo mette in pratica.

Jake la Nutria, ai bordi del divano, si strofinava freneticamente le zampette e ragionava squittendo ad alta voce.
I passanti che scorrevano sulla ciclabile più veloci e lisci dell’acqua del naviglio, abbacinati dal miraggio del footing e dell’East River della Grande Mela, non prestavano attenzione né a Luca infrattato nel canneto, né tanto meno a Jake che si prefigurava la perquisizione al covo del Malandato.
Tre migranti in bicicletta, provenienti dall’Hub di via Sammartini, invece, soppesavano Jake la Nutria e si facevano i conti in tasca su quanta carne restasse attaccata alle chiappe di una nutria, al netto della pelliccia. Poi si ricordarono di tutte le bestiacce che qualche tempo prima erano morte ammassate poco più giù alla chiusa, dove il fiumiciattolo spariva sotto la città, e per evitare che quei roditori grassocci attaccassero loro qualche brutta malattia pedalarono oltre, rivalutando i pasti sottovuoto del Comune di Milano. In fondo si è tutti migranti per qualcuno, e lo erano pure le nutrie, visto che erano state importate dal Sudamerica. 
Jake si rituffò nel naviglio e fece avanti e indietro dal divano un paio di volte per preparare se stesso e Luca alla spedizione di quella mattina.
Luca sapeva nuotare, ma gli umani non amano bagnarsi nel naviglio, quindi Jake aspettò nel canneto che il suo amico si ridestasse dal torpore vigile in cui era solito cascare, poi gli raspò energicamente le scarpe e iniziò a muoversi avanti e indietro per convincerlo a seguirlo.
La presero alla larga. Spuntarono sulla strada quasi a ridosso della piccola villetta a picco sulla Martesana che Jake conosceva per averne dissodato il giardino in cerca di bulbi, in compagnia del suo vecchio amico Scolo, nutria svelta di lingua e sveltissima di gomito. Il soprannome Scolo, infatti, se l’era guadagnato negli anni per la sua attività di drenaggio di tutte le bocce di birra abbandonate nel naviglio. Negli ultimi tempi, poi, la Martesana si era riempita di giovanotti con la barba e di sbarbate con le gonne corte, e le birrette da finire erano aumentate in numero esponenziale. Il risultato era stato che Scolo passava sempre più tempo infrattato in qualche buca sull’argine destro del naviglio a squassare una sbronza, e sempre meno in compagnia di Jake e delle loro avventure.
Jake e Luca rientrarono in Martesana dalle scale di viale Monza e si incamminarono verso il covo del Malandato. Insomma, Jake stava puntando alla tana del vecchio filibustiere, mentre Luca cercava a fatica di stargli dietro, preoccupato che non si perdesse.
In quel novembre carico di umidità e freddo, la luce era schiacciata e malaticcia, come se l’aria malsana della città si fosse impadronita della sua anima e nemmeno l’acqua potesse lavarle di dosso quelle polveri sottili, ma allo stesso tempo pesantissime.
La prima mattina era un idillio sulla ciclabile, e Jake amava farsi delle lunghe nuotate verso il fondo di via Padova per ammirare tutte le mamme che portavano a spasso i loro cuccioli. Soprattutto quella era l’unica ora in cui non c’era il fastidioso via vai di biciclette. Jake non amava neppure i giovanotti con i calzoni arrotolati quasi a metà gamba in preda all’estasi della fotografia compulsiva di tutti gli spazi lasciati verdi o marroncini dalla colata di cemento che aveva invaso Milano dopo il grande bazar del 2015, che lui aveva sentito chiamare Expo.
Alcune nutrie, dalle parti di Rho e dei fossi intorno a Cascina Merlata, erano state costrette a trasferirsi nella colonia della Martesana per quasi sei mesi, due anni prima, proprio perché fra mezzi pesanti, cantieri e fiumi di gente, era ormai impossibile vivere in quel territorio devastato come da una guerra.
C’erano stati contrasti con quelle nutrie di provincia e non di rado si era arrivati alle zampe, perché l’ospite è come il pesce. Dopo tre giorni puzza, e puzza sempre dalla testa.
Luca si era imbambolato sull’antico ponte di sasso a guardare il grande albero che si sporgeva, ormai quasi spoglio, sulle acque del naviglio. Jake lo lasciò fare e fece scorrere lo sguardo verso il vecchio convento delle monache, dove un campanile di mattoni rossi scandiva le ore di clausura e anche quelle del quartiere. 
L’erba era leggermente gelata e, man mano che si lasciavano alle spalle il parco della Martesana e la sua torre grigia simile a una tana di reclusione per nutrie fuorilegge, Jake e Luca furono avvolti da una foschia densa che allontanava tutto e azzerava i rumori.
Il naviglio della Martesana, il fiumiciattolo più povero della città e forse per questo il più sincero, era ancora in grado di catapultare chi frequentava le sue sponde indietro nel tempo. Un tempo in cui le stagioni avevano un senso e le birre si bevevano all’osteria.
Quello era il territorio di Scolo e della sua famiglia, ma Jake non riusciva ad annusarli. Un cane doveva aver fatto la grossa da poco, perché le narici di Jake erano impestate da quell’odore acido e greve che solo un cane nutrito a scatolette può rilasciare.
“Merda” disse Luca.
Jake sobbalzò e si gettò istintivamente in acqua, per paura di un agguato.
“Devo averne pestata una, Bob”
Jake uscì dall’acqua e si spiegò perché l’odore del cane di cui sopra lo perseguitava da troppo tempo.
Poco prima del taglio netto che il cavalcavia di Ponte Nuovo disegnava sul naviglio e sulla ciclabile, Jake la Nutria scorse le lamiere e i cartoni che un tempo erano stati le mura e il tetto della baracchina del Malandato.
Luca si bloccò come in trance, appoggiato al parapetto di metallo, guardando lo scempio che qualche vandalo o peggio aveva fatto del covo del Malandato.
Jake si tuffò in acqua e uscì proprio sotto alla campata dove un tempo c’era l’ingresso della baracca.
Luca, fra poco, sarebbe risalito sulla strada e, scavalcato il muretto che divideva l’argine dalla via, si sarebbe calato sotto al ponte, ma Jake non poteva aspettare.
Il suo naso e le sue vibrisse gli dicevano che di lì era passata troppa gente e che non tutta apparteneva al loro ambiente: c’era uno strano odore di fondo che sapeva poco di naviglio e troppo di uomo. Mentre frugava dentro a una vecchia borsa di un supermercato, Jake fu colpito alle spalle.

Voi umani non lo sapete, ma quando la Grande Nutria viene per riprendersi la nostra pelliccia, non avvisa e non chiede nemmeno permesso. Semplicemente abbatte la sua lunga falce sulla nostra coda e diventiamo velocemente parte di un racconto passato, che le nostre nonne propinano ai cuccioli quando viene la sera e a dormire non ci vogliono andare.
Così quando il colpo mi prese alla collottola non ebbi nemmeno il tempo di dire una mezza orazione alla Castorina[1] – la Piaga dei conciatori di pelli – che capii che i miei giorni erano finiti. Cos’avrebbe fatto Luca senza di me?
“Tana per Jake la Nutria ficcanaso!”
La voce era quella del mio vecchio amico Scolo e, a meno che non si fosse messo in affari con la Grande Nutria, era molto probabile che mi avesse fatto un coppino un po’ troppo forte e niente più.
“Maledizione, Scolo. Hai la zampa pesante come quella della Grande Nutria, mi hai fatto perdere almeno un mese[2] di vita.”
“Jake non volevo farti paura, ma eri così concentrato che non ho resistito.”
Scolo reggeva fra le zampe una lattina di birra “ruttaforte”, molto in voga da queste parti. A giudicare da come barcollava era molto probabile che fosse cascata intera da qualche borsa della spesa.
“Che ci fai qui, vecchia lenza?”
“Scolo, sono venuto a cercare il Malandato, hai presente il vecchio che abitava qui?”
“Certo, Jake, è una brava persona. Ultimamente lo frequentavo poco perché aveva smesso di avanzarmi i fondi delle sue bottiglie. Si vede che non gradiva più la mia compagnia, oppure gli era venuta più sete. Un paio di notti fa dev’essere successo qualcosa, perché al mattino era tutto così e lui era sparito.”
“Hai visto qualcosa?”
“No. Ero in trasferta dalle tue parti. Sai dove c’è la nostra immagine sulla cascina?”
“Sì, certo. C’era una festa dei giovani uomini con i baffi e le sigarette dolci?”
“Precisamente. Una pellicceria, davvero un casino gigantesco. Ballavano, si attorcigliavano tutti e continuavano a fare delle luci abbaglianti con quelle scatolette che chiamano cellulari. Però ho fatto su un sacco di fondi e ho anche rivisto Raf.”
“Ci sei ricascato?”
“Jake, è complicato. Io le voglio molto bene, ma so che i nostri mondi sono distanti come il cielo e il naviglio.”
“Quella cornacchia non fa per te, Scolo. Non ti ci vedo a covare le uova mentre lei è in giro per gioielli.”
“Comunque, ho esplorato tutto qui e l’unica cosa che non sono riuscito ad aprire è quella grande borsa” disse Scolo all’indirizzo di un’enorme valigia chiusa con un lucchetto.

Luca scese sotto al ponte scivolando rumorosamente e rischiò di finire a mollo.
Jake e Scolo lo tirarono per gli orli dei calzoni con i loro grossi incisivi gialli e richiamarono la sua attenzione sulla grande valigia lucchettata.
Luca non sembrò incuriosirsi molto, o se lo fece non lo diede a vedere perché per il solito quarto d’ora accademico rimase immobile a fissare la valigia.
Jake la Nutria e Scolo raspavano in modo vigoroso il lucchetto per aprirlo, ma senza risultati apprezzabili, e Jake sapeva che in quel momento il suo amico Luca stava rielaborando la probabile dinamica della sparizione del Malandato. Si potevano quasi scorgere all’interno delle sue pupille le immagini che prendevano forma e trovavano ordine nel cervello umano. Quando Luca si ridestò, tutto gli era divenuto chiaro.
“Bob, qualcuno ha aggredito il Malandato.”
Jake e Scolo continuarono a raspare il lucchetto e Luca prese una grossa pietra con la quale spaccò agevolmente il lucchetto di scarsa qualità.
La valigia si aprì e ne uscì un forte odore di naftalina.
All’interno pochi indumenti, fra i quali un vestito uguale a quello che Jake e Scolo avevano visto un giorno che una coppia di umani aveva fatto una specie di servizio fotografico lungo il naviglio. In quell’occasione avevano appreso che quelle cerimonie venivano chiamate matrimoni. Un paio di scarpe quasi nuove, coordinate con il vestito, e un quaderno pieno di foto. Luca prese il quaderno e lo sfogliò.
Jake e Scolo videro una serie di immagini che ritraevano un uomo che assomigliava in modo vago al Malandato e che aveva tutti e due gli occhi sani, insieme a una donna molto bella e a un paio di cuccioli d’uomo che li tiravano per i pantaloni.
Poi Luca prese un foglio ripiegato in cinque o sei parti e lo aprì, ma non capì di cosa si trattasse.
Era una di quelle pezze di carta che gli umani mettevano sotto i piatti quando mangiavano nella cascina poco più su, dove Scolo aveva fatto festa la sera prima.
Le due nutrie lo osservarono con la loro tipica curiosità e dopo grandi sforzi di meningi compresero che cosa avevano scoperto.
Nel centro del foglio si trovava un punto nero intorno al quale una mano aveva disegnato delle righe verticali più o meno lunghe. La stessa mano aveva disegnato quelle che gli umani chiamano lettere e Luca le lesse incerto: “Duomo”.
“Il Duomo è il vero centro della città di Milano” disse Scolo, dando una botta a Jake.
Intorno a quel Duomo stilizzato si allargavano una serie di cerchi concentrici, come se qualcuno avesse buttato una grossa pietra nell’acqua e le onde avessero iniziato a propagarsi verso la periferia del foglio. Una rappresentazione stilizzata della città, composta da onde continue di cemento, case e persone che si spingono senza soluzione di continuità dal centro alla periferia. Su quei segni concentrici qualcuno aveva incollato alcune immagini, ritagliate probabilmente da qualche giornale. Di fianco ai pezzi di collage, la stessa mano aveva annotato qualcosa e aveva tracciato delle “x”. Non su tutte le immagini, però.
Luca, ignaro, continuava a leggere ad alta voce: “Castello Sforzesco. City Life. Bosco Verticale. Piazza Gae Aulenti”, ma a quel punto Jake e Scolo non lo ascoltavano più.
“Una mappa, Scolo!!! Questa è la mappa del Malandato e doveva essere molto preziosa per lui.”
“Certo, Jake, era il suo tesoro. La teneva insieme alle vecchie foto della sua famiglia e dei suoi cuccioli. Non aveva niente di più prezioso e chi lo ha aggredito cercava sicuramente questo pezzo di carta.”
Luca si mosse in fretta: prese Jake in braccio e tornò sul ponte ripiegando la mappa del Malandato e riponendola in fondo alla tasca della sua giacca.
“Scolo, tu indaga alla cascina e chiedi in giro” disse Jake. “Io intanto cercherò di capirci qualcosa di più.”

Luca era scosso. Sul divano non aveva nemmeno guardato uno dei suoi dvd preferiti e aveva avuto occhi solo per il quaderno con le foto del Malandato. La mappa l’aveva infilata tra la copertina e la prima pagina, ma non sembrava interessargli. A me, invece, interessava eccome. Certo, anche le foto erano particolari. Il Malandato lì sembrava un’altra persona, ma a me piaceva ricordarlo per come lo vedevo sempre: un uomo basso e un po’ curvo, con un occhio solo e vestito con il suo lungo pastrano e il cappello a righe che gli ingarbugliava i lunghi capelli sempre sporchissimi. Per non parlare della benda nera che gli copriva mezza faccia, l’occhio di vetro che spesso gli cascava quando non la indossava e i suoi proverbiali orecchini d’oro.
Il Malandato era diventato un vecchio filibustiere d’acqua dolce, ma anni prima doveva essere stato una persona normale e, adesso, qualcuno lo aveva fatto sparire.
Mi dovevo spremere il cervello per capire quale sarebbe stata la nostra prossima mossa. Per farlo dovevo sfogliare la mappa: da dove sarebbe partita la nostra indagine e perché il Malandato aveva messo tutte quelle “x”?
Santa Nutria, che rompicapo!




[1] Nota di Jake – Voi umani non conoscete il nostro pantheon e soprattutto non sapete che per noi il tempo scorre in modo diverso dal vostro. Un anno nutria è pari a quattordici anni umani, quindi per noi i fatti che vi sto per raccontare risalgono a un’era lontanissima. La Castorina, la Piaga dei conciatori, l’Incubo dei tassidermisti, nel lontanissimo 1989 aveva guidato una sanguinosa ribellione contro le concerie della bassa bergamasca e milanese, e le aveva costrette a chiudere i battenti facendo fuggire tutte le nutrie imprigionate per le loro pellicce caldissime e a basso costo. Le gesta della Castorina, il Flagello dei venditori di visoni farlocchi, sono raccolte in un libro di saghe curato da Nutria Nutriasson, un grande poeta del passato che abitava giù, verso l’ansa che la Martesana fa a Greco. È una lettura che tutte le nonne nutrie fanno alle nidiate di nipotini per forgiarne la vis pugnandi ed è un argomento di grande effetto e di sicura presa.
[2] NdJ – Vi ho detto che un anno nutria è pari a quattordici dei vostri, no? Ecco, per un mese nutria fate voi i conti che io ho da fare…

DIAMO UFFICIALMENTE IL VIA AI SUGGERIMENTI! ASPETTIAMO I VOSTRI SPUNTI SU COME CONTINUARE IL ROMANZO ENTRO LE ORE 12 DEL 28 MARZO QUI, SU FACEBOOK.COM/STRASTORIE O VIA MAIL A STRASTORIE@GMAIL.COM!

7 commenti:

  1. Ecco il primo spunto dell'edizione di StraStorie ExtraLarge, ricevuto su Facebook da Laura:
    "Il Malandato non era sempre stato così: anni prima (oramai aveva perso il conto) aveva una vita normale, anzi, una vita di successo, una moglie, dei figli, un’attività fiorente.
    E quel soprannome non se l’era guadagnato per l’aspetto fisico (ai tempi era stato decisamente un bell’uomo) ma per un affare “andato a male”, nel vero senso del termine.
    La famiglia di Giovanni Audisio, quello era il suo vero nome, gestiva una piccola macelleria in via Orefici, solo carne scelta di Carrù, direttamente dai pascoli del cuneese.
    Giovanni aveva la mente per gli affari e in breve trasformò la Macelleria delle Alpi di Audisio Giovanni padre, figlio e nipote (i piemontesi sono famosi per la loro fantasia ndr) in un fiorente commercio di carni.
    Aveva affittato un terreno in zona Lambrate e ci aveva costruito un moderno centro di stoccaggio e lavorazione di bovini: era quasi tutta sua la carne che ogni giorno veniva servita nei ristoranti del centro.
    Tutto questo successo iniziò a dare fastidio a qualcuno, forse al temibile cartello dell’Agnus argentino o ai toscani della Chianina. Fatto sta che la sera del 24 aprile, un giovedì, qualcuno si intrufolò nel capannone frigorifero di Audisio e, complice un fortunale che da giorni stava devastando Milano con continue interruzioni alla corrente elettrica, manomise i cavi del generatore d’emergenza.
    Il fatto venne scoperto solo il successivo lunedì mattina, quando i primi operai di ritorno dal ponte aprirono i portelloni e quasi svennero all’olezzo di 150 tonnellate di carne putrefatta. Da qui il suo soprannome, il Malandato, perché tutta la sua vita era “andata a male” insieme ai suoi quarti di bue.
    Giovanni non riuscì più a riprendersi da questo tracollo: l’inchiesta non portò a nulla, l’assicurazione tardò a risarcire e il Comune di Milano pretese subito la quota per lo smaltimento della carne putrida.
    Un venerdì di luglio uscì di casa alla solita ora per andare in macelleria ma non tornò mai più. A casa la bella moglie, la figlia e quel figlio così dolce e speciale rimasero ad aspettarlo per anni."

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  2. Ecco lo spunto ricevuto da Paola via mail a strastorie@gmail.com:
    Ecco lo spunto inviato da Paola a strastorie@gmail.com:
    ...."Luca ha lasciato la valigia abbandonata e aperta nel nido del Malandato, e forse vale la pena di ritornare a ispezionarla, finché il rompicapo della mappa rimane chiuso nella sua tasca e quindi difficile da studiare; torno sulle mie zampe e mi ritrovo presto a lottare col borsone rovesciandomi addosso il contenuto. Mi infilo e disinfilo in ogni indumento, huaw... la giacca mi dà una certa eleganza, e huaw... cosa c'è in questa tasca che mi graffia la zampa?
    Concentro gli sforzi per divincolarmi e infilandoci muso e baffi, riesco ad estrapolare il contenuto: un sacchetto di velo trasparente con dentro tappi di bottiglie (si sembrano quelli delle bevande gialle e schiumose presenti alle chiacchiere fra umani), luccicanti da una parte e segnati dall'altra, con una chiara lettera scritta in rosso.
    Il mio muso si è infilato soddisfatto nella rotondità del nastro che chiude ben stretto il sacchetto e questo mi dà la possibilità di portare facilmente il mio bottino da Luca." ...

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  3. Durante il primo incontro dal vivo di StraStorie del 21 marzo abbiamo ricevuto tre spunti dalle persone che hanno partecipato.
    Giuliano sottolinea che Jake la Nutria, Scolo e Raf, in quanto animali, possono sfruttare il fatto di guardare e ascoltare ciò che succede senza essere notati dagli esseri umani.
    Marina suggerisce un possibile lieto fine al femminile in cui compare la figura di una ragazza che dà da mangiare ai gatti in zona Martesana. Potrebbe nascere qualcosa tra lei e Luca, il grande amico di Jake la Nutria?
    Massimo condivide un’informazione nutriogastronomica, sostenendo le nutrie sono davvero molto ghiotte di bucce d'anguria.

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  4. Ecco lo spunto ricevuto da Graziella via mail:
    IL MALANDATO
    Il Malandato, con il cappellaccio, il vecchio pastrano sdrucito e i capelli sporchi, era un ex professore. Molti anni addietro era stato un insegnante in gamba, aveva insegnato disegno in un istituto d' arte a Varese. Con la sua aria da bohémien, con i suoi cappottoni lunghi, il cappello floscio in testa, un'aria vagamente assorta era un personaggio e non passava inosservato. Colto, aveva una preparazione vasta e una predilezione per l'arte del tessuto, per la tessitura dei popoli antichi. Con alcuni colleghi, nei tempi che furono, aveva formato un gruppetto, un trio di studiosi, che aveva perlustrato in lungo e in largo gli insediamenti celtici e romani nell'Italia settentrionale, in particolare in Lombardia e in Friuli, regione dove aveva fatto il servizio militare. I loro non erano sempre appostamenti e approfondimenti di solo studio. Spesso vi avevano affiancato traffici illeciti e avevano passato brutti momenti. Sembra che alla ricerca di un particolare tessuto o meglio di un disegno impresso dai Celti nei loro tessuti di cui qualche particolare era noto ma molto restava ancora da scoprire, per spostare dunque un pesante masso che ostruiva un passaggio avesse usato della dinamite e nell'esplosione avesse perso l'occhio. Per lasciare decantare le acque, come si suol dire, il team si era sciolto; poi i casi della vita li avevano dispersi, però ognuno per proprio conto aveva continuato studi e traffici. L'attività non sempre solare e tranquilla, le continue assenze da scuola avevano avuto riscontri negativi sia nell'insegnamento sia in famiglia.
    Forse la scomparsa non era un rapimento bensì solo un ritorno alle origini... I vecchi compagni si erano rifatti vivi, avevano per le mani un affare importante e non c'era tempo da perdere. Alcuni ritrovamenti avvenuti a Milano avevano dato un'accelerazione alle loro macchinazioni. La loro attenzione doveva essere rivolta verso i Navigli, verso i canali che su su arrivavano fino al Maggiore. Era lungo le vie d'acqua che Celti e Romani svolgevano i loro commerci. Forse questi luoghi nascondevano ancora molti "tesori" da scoprire. Così il Malandato, raggiunto dagli altri senza preavviso, era partito in fretta lasciando un po' tutto sottosopra dando adito a scenari inquietanti.

    JAKE e SCOLO
    Jake e Scolo non si davano pace, bisognava agire... I Navigli erano un po' il loro punto forte, bisognava indagare, capire se era accaduto qualcosa di insolito, tipo incontri sospetti tra umani vagabondi, verificare se c'erano stati strani viavai. Scolo si ricordava di avere una vecchia conoscenza dalle parti del Maggiore, una che gironzolava spesso da un canale all'altro, una cornacchia un po' petulante e ficcanaso... sempre alla ricerca di qualche luccichio su cui piombare, di qualche fatto su cui sparlare.

    Sì, cra cra, era proprio Golasecca quella che serviva a loro in questo momento.

    N.B. Golasecca viene chiamata così in riferimento agli insediamenti di origine celtica presenti sulle rive del lago Maggiore.

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  6. Ecco lo spunto suggerito a voce a Francesco Gallone dal suo omonimo Francesco, un ispettore del mercato:
    I cani randagi di Mosca.
    Gli etologi stanno studiando gli effetti dell'urbanizzazione sui comportamenti animali. A Mosca, i randagi di periferia prendono la metrò per andare in centro dov'è facile trovare cibo, la sera tornano in periferia dove si sta più tranquilli. Addirittura per non dare nell'occhio il branco si sparpaglia, un cane per vagone.

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  7. Ecco lo spunto inviato da Pier via mail:
    Luca cercava di concentrarsi su quella mappa e su quelle croci. Passarono i consueti 15 minuti prima che potesse riprendersi dai suoi pensieri.
    "ebbene si" esclamò improvvisamente.
    Si alzò come una furia dal divano tanto che il povero Jack ebbe un soprabbalzo.
    Luca lasciò il suo nascondiglio e si precipitò in strada dove imboccò quasi di corsa la via Topis.
    Jack capì che sotto c'era qualcosa e si affrettò a seguire l'amico.
    Luca stava pensando a quella croce che era posta sul Duomo più importante d'Italia.
    Luca davanti e la nutria dietro potevano sembrare una coppia un po' strana; per fortuna il buio della notte stava avvolgendo le strade della città. Vi erano qualche guardia qua e là e qualche passante che in realtà erano più assorti di Luca nei loro ragionamenti.
    Nessuno faceva loro caso.
    Quasi di corsa i due arrivarono in piazza Duomo.
    Luca estrasse di nuovo la mappa e la guardò e riguardò mentre Jack se ne stava in disparte.
    In realtà la X non era collocata sul Duomo, pensò Luca.
    Era collocata in posizione frontale rispetto alla grande chiesa.
    A questo punto Luca iniziò a perlustrare la piazza in lungo ed in largo.
    Jack lo guardava sempre più preoccupato.
    La X si collocava proprio sulla statua di Vittorio Emanuele che dal suo cavallo di fronte a se osserva il Duomo.
    Luca allora iniziò a tastare il basamento della statua e cercare ma senza successo.
    La nutria capì che era il momento di aiutarlo e decise di cercare la banda delle nutrie di piazza San Babila che dominava in centro.
    La banda era nota per le sue ... scorribande notturne e per la vita modaiola che seguiva.
    Era capeggiata dal suo caro amico, LISCIONE, una nutria tutta d'un pezzo, grande conquistatore di femmine.
    Dopo una ricerca piuttosto lunga la banda del Liscione si materializzò avanti a Luca.
    Un breve consulto tra nutrie ed il Liscione ritenne fosse il caso di far intervenire la memoria storica di tutte le nutrie del centro ovvero il GRANDE VECCHIO.
    Colui che tutto conosceva.
    Ancora una ricerca e finalmente il GV si materializza avanti al gruppo con il suo stuolo di consorti.
    La domanda era questa: c'era qualcosa dentro o sotto la statua?
    Il GV parlò sottovoce alla sua consorte giovane e questa si arrampicò sulla statua e zampettò vicino alla sella; improvvisamente, nel basamento si aprì un passaggio segreto.
    Questo portava nel sottosuolo ove da una ampia sala dipartivano tre cunicoli.
    Luca e le nutrie si infilarono ed iniziarono a perlustrare le vie.
    Il gruppo di destra fu più fortunato: aveva trovato una cassa piuttosto ingombrante.
    Luca dovette rompere il lucchetto con un sasso.
    All'interno c'erano diverse pergamene e libri antichi o almeno molto rovinati.
    Era probabilmente quello il tesoro del Malandato.
    Luca iniziò ad esaminarli.
    Il GV attirò la sua attenzione su un testo di colore rosso un po' più piccolo degli altri.
    Luca iniziò la lettura: era un volume che faceva parte di una trilogia.
    Chi avrebbe conquistato i tre volumi avrebbe conquistato il grande tesoro di CAPITAN UNCINO.
    Ogni volume conteneva un indizio, una traccia.
    Luca guardò la mappa e vide che vi erano tre croci ...

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