STRASTORIE EXTRALARGE
UN ROMANZO SCRITTO ATTRAVERSO
L’INTERAZIONE CON I LETTORI DA RICCARDO BESOLA,
ANDREA B. FERRARI E FRANCESCO
GALLONE
Guendalina Ravazzoni, Le pagine in testa |
Capitolo 1
in cui conosciamo
Luca, Jake e i loro luoghi
San Martino incontrò un mendicante
nudo, e per ripararlo dal freddo tagliò con la spada a metà il proprio
mantello, così che questi potesse coprirsi. Poco più avanti incontrò un altro
povero nudo – a quanto pare era di moda tra gli emarginati circolare in tenuta
adamitica a quell'epoca –, e San Martino gli diede l'altra metà del proprio
mantello. Dio, impietosito dal gesto, o inorgoglito, chissà, fece splendere il
sole in cielo concedendo al santo in viaggio una giornata mite. Fu così che
nacque quella che oggi i cristiani chiamano “Estate di San Martino” e gli anticlericali definiscono
all'americana “Estate Indiana”,
per connotare il fenomeno climatico dell'11 novembre di tratti non divini,
bensì esotici.
Tutte queste cose Luca non le avrebbe
sapute se non gliele avesse raccontate il parroco di Greco, il prevosto della chiesa
di San Martino, durante uno dei suoi pranzi al Refettorio Ambrosiano, la mensa
per i poveri ospitata nei locali della parrocchia, dove senzatetto, senza fissa
dimora, clochard, barboni, furbacchioni e persone in grave difficoltà economica
trovavano un pasto caldo ad accoglierli a pranzo, da lunedì a sabato.
Alcuni volontari si impegnavano a
cucinare per loro e servirli, cosicché, come sosteneva qualche ottusa
malalingua, ci si trovava di fronte al paradosso che i morti di fame in fin dei
conti venissero serviti e riveriti come al ristorante, mentre chi andava a
lavorare e tornava a casa la sera tardi e stanco se voleva mangiare doveva
cucinare.
Luca frequentava il Refettorio da pochi
mesi. Prima non lo conosceva e si arrangiava, e prima ancora non ne aveva avuto
bisogno, perché aveva una casa e una mamma che gli preparava il pranzo e la
cena. Luca era un ragazzo che la gente reputava sfortunato, ma se fosse stato
interrogato in proposito, avrebbe risposto che le uniche cose brutte che gli
erano capitate erano state la sparizione di suo padre, quando era piccolo, e la
morte di sua madre, cinque anni prima. Per il resto, non pensava di essere sfortunato,
perlomeno non come intendeva quella gente.
Luca non pensava di essere ritardato,
come quelli credevano, non pensava di essere stupido, non pensava che la sua
situazione fosse infelice. Certo, da quando non aveva più una casa in cui
dormire alle volte aveva sofferto il freddo, e da quando non aveva più un
lavoro alle volte aveva sofferto la fame, e da quando non aveva più un bagno
alle volte gli era capitato di sentire un fastidioso prurito, però ricordava di
avere avuto problemi differenti ma equivalenti anche prima, quando quella gente
lo salutava ancora con simpatia e non con pietà come faceva ora: al lavoro
doveva sopportare l'aria condizionata, quell'aria artificiale che lo faceva
tossire, doveva vestirsi in una maniera che lo faceva sentire scomodo e a
disagio per tutto il giorno, doveva sopportare le sgridate dei colleghi, quella
rabbia umiliante perché trattenuta, come se lui non capisse che loro pensavano
che lui non capisse.
Quando sua madre era morta, e neanche
tranquilla perché continuava a chiedere chi si sarebbe preso cura di suo
figlio, Luca era rimasto solo. O meglio, al funerale aveva creduto di avere una
moltitudine di amici e di persone che lo avrebbero aiutato, e qualcuno, per un
po', l'aveva fatto. Poi le cose si erano complicate, i servizi sociali avevano
cominciato a ospitarlo in case di accoglienza, quindi in piccole comunità, ma Luca
non era scemo, avrebbe solo voluto poter continuare la sua vita così com'era
stata fin lì. Così aveva cominciato a scappare dalle strutture preposte ad
assistere le persone come lui. Il problema era che nessuno si rendeva conto di
due questioni: la prima, che lui non aveva bisogno di essere assistito; la
seconda, che non esistevano persone come lui. Esisteva lui. E per lui, lui era
unico.
Era finito così a vivere per strada, o
meglio, lungo il naviglio della Martesana. Era lì che aveva incontrato il suo
unico amico, il solo che lo comprendesse: Bob. Il suo migliore amico. Che però
si chiamava Jake. Ma ci sarà occasione più avanti per approfondire questa
faccenda.
Era, appunto, una tiepida mattina di
novembre, e Luca, come quasi ogni giorno, era andato a pranzo al Refettorio. Il
campanile di San Martino aveva battuto i dodici rintocchi da circa mezz'ora,
quando nel Refettorio Ambrosiano Carcarlo cominciò a brontolare tra sé e sé.
Carcarlo era un ex professore di letteratura
italiana in uno storico liceo della periferia milanese. Prima di finire a
vivere per strada, quando ancora gli alunni lo chiamavano “Prof” ed era la moglie a
cucinare per lui, si chiamava semplicemente Carlo. Perché non balbettava. Poi
un giorno successe che, mentre guidava, per lasciare spazio a una bicicletta
che aveva intravisto nello specchietto retrovisore destro della sua Fiat 127
d'antiquariato, s'era arrestato al semaforo in mezzo, né a destra, né a
sinistra, senza preoccuparsene, a dire il vero, date le condizioni di traffico scarso
e scorrevole.
Non dello stesso parere era il
guidatore della Honda Jazz che giunse alle sue spalle. L'uomo, sui
quarant'anni, insistette in una manovra di inserimento sulla destra dell'auto
di Carcarlo, sorpassandolo a fatica e soprattutto insultando il professore con
ogni sorta di epiteto. Carcarlo, esterrefatto, osservava l'altro imbestialirsi
sempre di più mentre si incastrava tra la sua 127 e le macchine parcheggiate.
Il professore sospirò uno “Stupido” che l'altro raccolse molto sul personale,
calando come gli Unni dall'auto, estraendo Carcarlo a forza dall'abitacolo
della sua antica utilitaria, e percuotendolo al punto da lasciarlo esanime a
terra.
Il professore non si riprese mai più
dallo choc. Cominciò a balbettare e a soffrire di attacchi di panico. Non osava
più rivolgere parola a nessuno, nemmeno ai suoi allievi. Perse la cattedra,
perse il rispetto di tutti, e sua moglie perse la pazienza. Fu proprio dopo una
sfuriata, pur comprensibile, di quest'ultima, che Carcarlo andò via di casa e
si ritirò a vivere per la strada, dove nessuno gli rivolgesse la parola. Aveva
un carrello del supermercato pieno di vecchi libri, coperti con dei cartoni e
del cellophane. Nel corso degli anni aveva imparato dove andare a mangiare, e
uno di questi luoghi era la mensa di piazza Greco.
Una cosa che Carcarlo non aveva
imparato, però, è che un libro, se lo presti, s'offende e poi non torna più
indietro. Aveva prestato la sua copia de I Miserabili, fogliettone cui
era molto affezionato, al Malandato, uno dei pochissimi barboni con cui ogni
tanto intrattenesse qualcosa di simile a una conversazione. Anche il Malandato
aveva studiato, e aveva insegnato, ed era questo il motivo per cui Carcarlo si
era fidato a prestargli un prezioso volume della sua biblioteca a rotelle. Ma era
da un paio di giorni che il Malandato non veniva in Refettorio. Era sparito. E
con lui, il libro di Carcarlo.
Dunque era questo il motivo per cui
Carcarlo brontolava. Un cucchiaio di tortellini, e un paio di sommesse
imprecazioni. Un cucchiaio di tortellini, e “L'ha fa-fatto appo-posta, di
sicuro!”. Un cucchiaio di brodo, col risucchio, e “E chissà-sà che ci fa...
maga-gari non capi-pisce, magari lo bru-brucia per sca-caldarsi... maga-gari lo
usa quando va al ba-bagno, per pu-pulirsi...”
Carcarlo esponeva a se stesso i propri
timori, e Luca, di fronte, al tavolo accanto, lo fissava come se niente fosse,
mentre masticava tranquillo i propri bocconi.
Di Luca i volontari sapevano che aveva
poco più di trent'anni e non viveva per strada da moltissimo; non mendicava,
gironzolava per la città e dormiva su un divano sotto al ponte ferroviario
sulla Martesana, all'altezza di via Sammartini. Sicuramente aveva una storia
alle spalle, ma nessuno dei volontari la conosceva, nonostante fosse un tipo
affabile, socievole, forse non un grandissimo conversatore, ma di certo non un
ragazzo introverso o riservato. Semplicemente, non l'aveva raccontata a
nessuno, quella storia, e forse nessuno gliel'aveva nemmeno chiesta.
E ora Luca era là, che fissava con
indifferenza Carcarlo, deglutendo con calma, mentre quello s'arrabbiava per
davvero e iniziava ad alzare la voce con i volontari che passavano a sbarazzare
i piatti del primo vuoti, per poter servire i secondi. Il Professore si
infuriava sempre di più perché non poteva capacitarsi d'essere cascato in
quella che era stata sicuramente una truffa da parte del Malandato, che gli
aveva portata via la sua copia de I
Miserabili, magari per vendersela al Libraccio, e quella invece era
un'edizione particolare, preziosa, del 1946, e dove la poteva ritrovare...
I volontari servirono la frittata con
gli spinaci e l'insalata di cavolo cappuccio di contorno. Luca era goloso di
frittate, ma ne tagliò un pezzetto e se lo infilò in tasca, prima di sbranare
il resto e tornare indifferente a osservare Carcarlo, che ormai urlava e
invocava la giustizia degli dèi, le Erinni, il Castigo, per quel disgraziato
del Malandato (che, a vederlo, disgraziato lo era davvero), sparito da due
giorni coi suoi Miserabili. I
volontari non sapevano come comportarsi con Carcarlo. Decisero di chiamare il
parroco.
Don Giuliano, uomo di fede e di grazia,
ringraziò il Signore per averlo messo alla prova anche quel mezzogiorno e scese
di sotto, nel Refettorio.
Le maniche della camicia color grigio
prete (clergie, ma solo per le
persone alla moda) arrotolate fino ai gomiti, la pancia appena più abbondante
del dovuto e quel sorriso ironico alla Don Camillo, lo facevano sembrare un
operaio piuttosto che il parroco, ma la sua voce ferma e mai affannata lo definiva
come la guida di quel gregge di pecoroni più o meno smarriti.
Don Giuliano si avvicinò conciliante a
Carcarlo che, per niente intimorito dall’arrivo del prete, aveva, se possibile,
alzato ulteriorimente il volume e il tiro delle sue invettive e stava già
scomodando il pantheon di Asgard, avendo esaurito gli dèi greci e i loro
omologhi latini.
Don Giuliano prima lo blandì con le
buone, si sedette al suo fianco, gli fregò anche un po’ di frittata dal piatto,
per scuoterlo, ma vedendo che non c’erano santi (e lui, uomo di chiesa, era ben
consapevole di cosa stava dicendo), passò alle cattive. Lo minacciò di
cacciarlo dal Refettorio, gli disse che avrebbe sospeso la sua tessera alla
biblioteca parrocchiale, ma Carcarlo continuava a non sentire ragioni.
“È un com-complotto! Il Malandato mi ha
fre-fregato I Miserabili, e so-sono
sicuro che si è me-messo d’accordo con voi, ille-illette-terati e sfaticati, ma
il Prof Car-Carlo non si fa in-infinocchiare dalle vostre giu-giustificazioni
con la firma falsa. Io li co-conosco a uno a uno i vostri genitori. Vedrete al
prossimo ri-ricevimento!”
Luca, quasi assente, o forse assorto
nei suoi pensieri, guardava Carcarlo e don Giuliano e sgranocchiava placido il
suo cavolo cappuccio, un po’ troppo abbondante d’aceto, ma certamente
gradevole.
Il Prof continuava a gridare e ad
agitarsi. Pezzi di frittata e un mezzo bicchiere d'acqua finirono per aspergere
le vesti di tre volontarie che cercavano di contenerlo e una delle preziose
sedie donate da una nota casa di design.
“Basta” disse don Giuliano alzandosi
sconsolato “chiamiamo i servizi sociali. Mi sa che è lavoro per loro” e si
avviò verso la canonica con il cellulare appoggiato all’orecchio.
Luca, d’improvviso, si rianimò: iniziò
ad ingozzarsi, divorò un ultimo rimasuglio di frittata, ingollò l’acqua che
aveva di fronte, s’infilò in bocca il francesino che fino a lì aveva appena
sbocconcellato e lasciò il resto del cavolo cappuccio. Si alzò e, come in
trance, passando dal bancone dove venivano preparate le pietanze per essere
servite, prese il suo budino al crème caramel. Fuori, in piazza Greco, schioccò
le dita di una mano come per darsi il ritmo e si diresse a grandi falcate verso
via Finzi, dove una vecchia cascina stava per essere trasformata in una serie
di appartamenti moderni, ma fumigati d’antico, come le pergamene che
s’invecchiano con il tè. Un'ombra si destò e da dietro la fontanella verde
iniziò a corrergli dappresso.
Quindici minuti più tardi, Carcarlo
venne caricato su un’autoambulanza diretta all’ospedale Niguarda per un
trattamento sanitario obbligatorio che gli avrebbe obnubilato la mente per
qualche tempo, ma almeno gli avrebbe impedito di soffrire coscientemente per i
suoi Miserabili perduti.
Ehi, questa è la maxistoria di come la
mia vita sia cambiata, capovolta, sottosopra sia finita: mi chiamo Skrriekkhh,
ma per comodità potete chiamarmi Jake la Nutria, o come fa il mio amico, Bob.
Sono una nutria, e sono molto più intelligente di quanto possiate pensare –
tutte le nutrie lo sono, ma non per vantarmi io lo sono di più –, sicuramente
più di Luca, il mio amico umano. Luca mi chiama Bob perché è convinto che io
sia un gatto come quello che fa amicizia con un drogato in un film che lui ama
rivedere assieme a me, pratica che trovo certamente molto romantica, ma pure
avvilente, perché per quanto Luca sia un po’ stupido, non riesco a capacitarmi
di come non riesca a notare la differenza che passa tra un roditore e un
felino, ma amen.
Faccio parte di quella nutrita famiglia
di nutrie che regnano incontrastate nel tratto di Martesana che va dalla chiusa
del Lambro giù in via Idro, fino a via Melchiorre Gioia, dove la città che
punta all’Europa si è ingoiata anche il naviglio e l’ha coperto d’asfalto e
traffici.
Ho incontrato Luca ormai un paio di
anni fa e ho imparato a prendermi cura di lui, perché è un ragazzo un po’
particolare e io una nutria molto sensibile.
Luca, allora, parlava poco e passava la
gran parte del suo tempo accoccolato sul divano ad ascoltare il naviglio e a
guardare i dvd. Ne ha una collezione ragguardevole, sgraffignata qua e là dalle
bancarelle o che ha tenuto con sé quando, dopo la morte della madre, ha
faticato a reggere il ritmo frenetico della città ed è finito senza un tetto e
senza un lavoro sotto al ponte di via Sammartini. Mi ha detto che da casa si
era portato solo il divano e qualche dvd. Non ho mai voluto sapere altro,
perché ognuno ha diritto alla sua riservatezza. Luca guarda le copertine dei
dvd e legge le trame sul retro delle confezioni per immaginare i finali, perché
il bello è il viaggio, mica vedere gli attori dentro a una scatola piatta.
Jake la Nutria raggiunse il suo amico
all’altezza del cavalcavia di via Finzi. Lì la ferrovia e il naviglio disegnano
un intreccio di linee così parallele da ingarbugliarsi in un infinito raccordo
di binari, ponticcioli e anse, protette dal campanile illuminato della chiesa
di San Martino e dai ricordi dei vecchi borghi di Gorla e Greco.
“Vieni, Bob” disse Luca rivolto a Jake,
e s’infilò nella verzura scura che bordeggiava il naviglio e la strada
asfaltata, proprio di fronte alle case rosse che un tempo avevano ospitato le
famiglie dei ferrovieri di stanza alla stazione Greco-Pirelli. Jake seguì il
giovane uomo con un sogghigno celato dagli incisivi giallissimi.
Luca si nascose, tutto tremante per la
paura, nel canneto che stava sulla sponda opposta al divano, riparato dal
ponte. Teneva la testa rintanata in mezzo alle ginocchia, avvicinate al petto e
strette insieme dalle braccia. Il suo respiro era affannoso per la corsa e per
la strizza, e Jake capì che c’era bisogno di lui. Non sapeva il perché, ma
aveva notato che le ambulanze e i litigi
incutevano a Luca terrore. Così, quando nel mezzo della fuga aveva sentito le
sirene dirigersi verso il Refettorio, aveva capito.
Luca era così spaventato che aveva
preferito rifugiarsi nel canneto, invece di fare il giro largo da viale Monza e
imboccare la ciclabile che scorreva sulla sponda opposta della Martesana.
Quando faceva così, solo una cosa
poteva tranquillizzarlo.
Jake raspò un lembo dei jeans di Luca e
si tuffò nel naviglio. Raggiunse il divano e tirò fuori qualcosa da una borsa sportiva
biancoazzurra. Poco dopo, era di nuovo accanto al suo amico e gli porgeva un
dvd.
Luca lo prese fra le mani, fece
accomodare Jake la Nutria fra le sue gambe, gli diede il pezzo di frittata che
aveva conservato per lui e insieme, finché non calò il sole, guardarono un
altro grande classico: La leggenda del
Santo Bevitore.
Capitolo 2
In cui Jake e Scolo entrano nel covo del Malandato
O
il tempo era diventato ateo, o aveva preso troppo alla lettera il racconto
dell’Estate di San Martino che contemplava una giornata molto mite, ma non
faceva menzione di come fosse andata la notte.
Nel
canneto Luca aveva sofferto un freddo cane, contro il quale la pelliccia
stopposa di Jake aveva potuto opporre solo una tiepida resistenza.
Jake
la Nutria conosceva le manovre del Generale Inverno, ma non sospettava che
quest’anno avrebbe sferrato il suo attacco alla Martesana così in anticipo.
Luca
tremava come una foglia e faceva frusciare con i suoi deliri il minuscolo
canneto appoggiato su quell’ansa del naviglio che qualcuno chiamava il fiordo
di Milano.
Jake
gli era stato vicino per tutta la notte e aveva annotato nella sua testolina
pelosa e velocissima quello che era uscito delle labbra violacee di Luca. Il
suo amico umano aveva parlato del Malandato che era sparito e di qualcuno che aveva
rubato dei miserabili, forse un professore.
Ora,
Jake la Nutria era una nutria fuori dal comune, ma sicuramente non aveva
contezza di quell’immenso autore che era stato Victor Hugo, non fosse altro
perché nelle centinaia di traduzioni del suo libro mancava ancora – quale
popolo barbaro siamo divenuti in appena due secoli – una trasposizione in “nutrico”.
Jake quindi fece di tutti i barboni un fascio e intese che dovessero esserne
spariti un po’.
Luca
conosceva il Malandato, l’anziano con la benda che gli copriva l’occhio di
vetro, e aveva detto a Jake, un giorno in cui era in vena di confidenze, che il
vecchio aveva un covo giù dopo l’anfiteatro, fra il ponte Giallo e quello di
via Ponte Nuovo. Jake aveva passato il resto della notte in trepida attesa del
mattino, perché temeva che qualcuno potesse davvero far sparire anche Luca che
era a tutti gli effetti un barbone. Anzi, il suo amico barbone.
Si
dice che l’ora più buia della notte sia quella che precede l’alba, ma l’alba di
Luca arrivava sempre con un po’ di ritardo rispetto a quella di Jake, così il
giovane senzatetto si svegliò per un raggio di sole sfacciato che fece capolino
fra il ponte della ferrovia e il traffico, frastornante, sulla strada che
passava dietro l’ansa del naviglio.
Jake
la Nutria aveva previsto tutto questo e si era premunito di portare nel canneto
il sacchetto di plastica dove lui e Luca tenevano i biscotti e i succhi di
frutta con i quali facevano colazione. Li recuperavano dagli avanzi delle
merende della scuola elementare di via Sant’Erlembardo, poco distante. Era
facilissimo.
La
scuola era nel bel mezzo di un vecchissimo parco, un tempo appartenuto alla
famiglia Finzi, e le mura del parco costeggiavano la strada che portava a
Greco, proprio alle spalle del canneto. Jake e Luca avevano trovato un pertugio
nelle spesse mura e vi si intrufolavano verso la fine del giorno, quando il
parco chiudeva. Di lì, correvano indisturbati fino ai gabbiotti dei rifiuti
dove venivano scaricate le merende mangiate a metà o solo aperte dagli annoiati
cuccioli degli uomini. Quei gabbiotti erano una miniera d’oro e rappresentavano
una delle loro primarie fonti d’approvvigionamento. Jake la nutria le chiamava
le “scartomerende”.
Luca
guardò Jake e lo salutò con affetto: “Buon giorno, Bob. Freddo cane, vero?”.
Lui
annuì e diede una codata al sacchetto per farsi aprire una scartomerenda che
conteneva dei biscotti. Non che non fosse in grado di servirsi da solo, ma aveva
capito che al suo amico faceva molto piacere occuparsi di lui e lo lasciava
fare.
Jake
mangiò i biscotti e si buttò in acqua per raggiungere il divano. Sapeva anche
che dopo colazione, così come dopo qualsiasi attività, Luca saltava il tempo e
stava più o meno immobile per una quindicina di minuti. Poi ripartiva, lento
come sempre, fino allo stop successivo che coincideva con il pranzo al
refettorio.
In
quel quarto d’ora Jake approntò il piano per provare a capire come rasserenare
e proteggere Luca.
Non
potevo permettergli di passare un’altra nottata nel canneto, non credete?
E
non potevo nemmeno permettere che, fra tutti i senza fissa dimora di Milano,
sparisse anche lui, no?
Quindi
come ogni nutria che si rispetti dovevo prendere in zampa la situazione e cercare
di capire cosa caspita lo avesse agitato così tanto al Refettorio.
I
deliri di Luca riguardavano il Malandato che aveva una baracchina sul naviglio
e i miserabili, che per quanto mi riguarda sono la stessa cosa. Cioè, il
Malandato era certamente un miserabile come gli altri, anzi un poco di più,
quindi se la mia intelligenza non m’ingannava – e non lo fa quasi mai – un
pezzo del mistero che riguardava il Refettorio era legato proprio al Malandato.
Gli
altri miserabili, rubati o venduti, avrebbero dovuto aspettare così come il
professore che, se tanto mi dava tanto, era quel tizio strambo che il giorno
prima era stato caricato sull’ambulanza, mentre noi scappavamo.
Quando
una nutria ha a che fare con un mistero misterioso e ha quasi un quarto d’ora
da far passare, la nutria in questione elabora un piano e lo mette in pratica.
Jake
la Nutria, ai bordi del divano, si strofinava freneticamente le zampette e
ragionava squittendo ad alta voce.
I
passanti che scorrevano sulla ciclabile più veloci e lisci dell’acqua del
naviglio, abbacinati dal miraggio del footing e dell’East River della Grande
Mela, non prestavano attenzione né a Luca infrattato nel canneto, né tanto meno
a Jake che si prefigurava la perquisizione al covo del Malandato.
Tre
migranti in bicicletta, provenienti dall’Hub di via Sammartini, invece,
soppesavano Jake la Nutria e si facevano i conti in tasca su quanta carne
restasse attaccata alle chiappe di una nutria, al netto della pelliccia. Poi si
ricordarono di tutte le bestiacce che qualche tempo prima erano morte ammassate
poco più giù alla chiusa, dove il fiumiciattolo spariva sotto la città, e per
evitare che quei roditori grassocci attaccassero loro qualche brutta malattia
pedalarono oltre, rivalutando i pasti sottovuoto del Comune di Milano. In fondo si è tutti migranti per qualcuno,
e lo erano pure le nutrie, visto che erano state importate dal Sudamerica.
Jake
si rituffò nel naviglio e fece avanti e indietro dal divano un paio di volte
per preparare se stesso e Luca alla spedizione di quella mattina.
Luca
sapeva nuotare, ma gli umani non amano bagnarsi nel naviglio, quindi Jake
aspettò nel canneto che il suo amico si ridestasse dal torpore vigile in cui
era solito cascare, poi gli raspò energicamente le scarpe e iniziò a muoversi
avanti e indietro per convincerlo a seguirlo.
La
presero alla larga. Spuntarono sulla strada quasi a ridosso della piccola
villetta a picco sulla Martesana che Jake conosceva per averne dissodato il
giardino in cerca di bulbi, in compagnia del suo vecchio amico Scolo, nutria
svelta di lingua e sveltissima di gomito. Il soprannome Scolo, infatti, se l’era
guadagnato negli anni per la sua attività di drenaggio di tutte le bocce di
birra abbandonate nel naviglio. Negli ultimi tempi, poi, la Martesana si era
riempita di giovanotti con la barba e di sbarbate con le gonne corte, e le
birrette da finire erano aumentate in numero esponenziale. Il risultato era
stato che Scolo passava sempre più tempo infrattato in qualche buca sull’argine
destro del naviglio a squassare una sbronza, e sempre meno in compagnia di Jake
e delle loro avventure.
Jake
e Luca rientrarono in Martesana dalle scale di viale Monza e si incamminarono
verso il covo del Malandato. Insomma, Jake stava puntando alla tana del vecchio
filibustiere, mentre Luca cercava a fatica di stargli dietro, preoccupato che
non si perdesse.
In
quel novembre carico di umidità e freddo, la luce era schiacciata e malaticcia,
come se l’aria malsana della città si fosse impadronita della sua anima e
nemmeno l’acqua potesse lavarle di dosso quelle polveri sottili, ma allo stesso
tempo pesantissime.
La
prima mattina era un idillio sulla ciclabile, e Jake amava farsi delle lunghe
nuotate verso il fondo di via Padova per ammirare tutte le mamme che portavano
a spasso i loro cuccioli. Soprattutto quella era l’unica ora in cui non c’era
il fastidioso via vai di biciclette. Jake non amava neppure i giovanotti con i
calzoni arrotolati quasi a metà gamba in preda all’estasi della fotografia
compulsiva di tutti gli spazi lasciati verdi o marroncini dalla colata di
cemento che aveva invaso Milano dopo il grande bazar del 2015, che lui aveva sentito
chiamare Expo.
Alcune
nutrie, dalle parti di Rho e dei fossi intorno a Cascina Merlata, erano state
costrette a trasferirsi nella colonia della Martesana per quasi sei mesi, due
anni prima, proprio perché fra mezzi pesanti, cantieri e fiumi di gente, era
ormai impossibile vivere in quel territorio devastato come da una guerra.
C’erano
stati contrasti con quelle nutrie di provincia e non di rado si era arrivati
alle zampe, perché l’ospite è come il pesce. Dopo tre giorni puzza, e puzza
sempre dalla testa.
Luca
si era imbambolato sull’antico ponte di sasso a guardare il grande albero che
si sporgeva, ormai quasi spoglio, sulle acque del naviglio. Jake lo lasciò fare
e fece scorrere lo sguardo verso il vecchio convento delle monache, dove un
campanile di mattoni rossi scandiva le ore di clausura e anche quelle del
quartiere.
L’erba
era leggermente gelata e, man mano che si lasciavano alle spalle il parco della
Martesana e la sua torre grigia simile a una tana di reclusione per nutrie
fuorilegge, Jake e Luca furono avvolti da una foschia densa che allontanava
tutto e azzerava i rumori.
Il
naviglio della Martesana, il fiumiciattolo più povero della città e forse per
questo il più sincero, era ancora in grado di catapultare chi frequentava le
sue sponde indietro nel tempo. Un tempo in cui le stagioni avevano un senso e le
birre si bevevano all’osteria.
Quello
era il territorio di Scolo e della sua famiglia, ma Jake non riusciva ad
annusarli. Un cane doveva aver fatto la grossa da poco, perché le narici di
Jake erano impestate da quell’odore acido e greve che solo un cane nutrito a
scatolette può rilasciare.
“Merda”
disse Luca.
Jake
sobbalzò e si gettò istintivamente in acqua, per paura di un agguato.
“Devo
averne pestata una, Bob”
Jake
uscì dall’acqua e si spiegò perché l’odore del cane di cui sopra lo
perseguitava da troppo tempo.
Poco
prima del taglio netto che il cavalcavia di Ponte Nuovo disegnava sul naviglio
e sulla ciclabile, Jake la Nutria scorse le lamiere e i cartoni che un tempo
erano stati le mura e il tetto della baracchina del Malandato.
Luca
si bloccò come in trance, appoggiato al parapetto di metallo, guardando lo
scempio che qualche vandalo o peggio aveva fatto del covo del Malandato.
Jake
si tuffò in acqua e uscì proprio sotto alla campata dove un tempo c’era
l’ingresso della baracca.
Luca,
fra poco, sarebbe risalito sulla strada e, scavalcato il muretto che divideva
l’argine dalla via, si sarebbe calato sotto al ponte, ma Jake non poteva
aspettare.
Il
suo naso e le sue vibrisse gli dicevano che di lì era passata troppa gente e
che non tutta apparteneva al loro ambiente: c’era uno strano odore di fondo che
sapeva poco di naviglio e troppo di uomo. Mentre frugava dentro a una vecchia
borsa di un supermercato, Jake fu colpito alle spalle.
Voi
umani non lo sapete, ma quando la Grande Nutria viene per riprendersi la nostra
pelliccia, non avvisa e non chiede nemmeno permesso. Semplicemente abbatte la
sua lunga falce sulla nostra coda e diventiamo velocemente parte di un racconto
passato, che le nostre nonne propinano ai cuccioli quando viene la sera e a
dormire non ci vogliono andare.
Così
quando il colpo mi prese alla collottola non ebbi nemmeno il tempo di dire una
mezza orazione alla Castorina[1]
– la Piaga dei conciatori di pelli – che capii che i miei giorni erano finiti. Cos’avrebbe
fatto Luca senza di me?
“Tana
per Jake la Nutria ficcanaso!”
La
voce era quella del mio vecchio amico Scolo e, a meno che non si fosse messo in
affari con la Grande Nutria, era molto probabile che mi avesse fatto un coppino
un po’ troppo forte e niente più.
“Maledizione,
Scolo. Hai la zampa pesante come quella della Grande Nutria, mi hai fatto
perdere almeno un mese[2]
di vita.”
“Jake
non volevo farti paura, ma eri così concentrato che non ho resistito.”
Scolo
reggeva fra le zampe una lattina di birra “ruttaforte”, molto in voga da queste parti. A giudicare da come barcollava era
molto probabile che fosse cascata intera da qualche borsa della spesa.
“Che
ci fai qui, vecchia lenza?”
“Scolo,
sono venuto a cercare il Malandato, hai presente il vecchio che abitava qui?”
“Certo,
Jake, è una brava persona. Ultimamente lo frequentavo poco perché aveva smesso
di avanzarmi i fondi delle sue bottiglie. Si vede che non gradiva più la mia
compagnia, oppure gli era venuta più sete. Un paio di notti fa dev’essere
successo qualcosa, perché al mattino era tutto così e lui era sparito.”
“Hai
visto qualcosa?”
“No.
Ero in trasferta dalle tue parti. Sai dove c’è la nostra immagine sulla cascina?”
“Sì,
certo. C’era una festa dei giovani uomini con i baffi e le sigarette dolci?”
“Precisamente.
Una pellicceria, davvero un casino gigantesco. Ballavano, si attorcigliavano
tutti e continuavano a fare delle luci abbaglianti con quelle scatolette che
chiamano cellulari. Però ho fatto su un sacco di fondi e ho anche rivisto Raf.”
“Ci
sei ricascato?”
“Jake,
è complicato. Io le voglio molto bene, ma so che i nostri mondi sono distanti
come il cielo e il naviglio.”
“Quella
cornacchia non fa per te, Scolo. Non ti ci vedo a covare le uova mentre lei è
in giro per gioielli.”
“Comunque,
ho esplorato tutto qui e l’unica cosa che non sono riuscito ad aprire è quella
grande borsa” disse Scolo all’indirizzo di un’enorme valigia chiusa con un
lucchetto.
Luca
scese sotto al ponte scivolando rumorosamente e rischiò di finire a mollo.
Jake
e Scolo lo tirarono per gli orli dei calzoni con i loro grossi incisivi gialli
e richiamarono la sua attenzione sulla grande valigia lucchettata.
Luca
non sembrò incuriosirsi molto, o se lo fece non lo diede a vedere perché per il
solito quarto d’ora accademico rimase immobile a fissare la valigia.
Jake
la Nutria e Scolo raspavano in modo vigoroso il lucchetto per aprirlo, ma senza
risultati apprezzabili, e Jake sapeva che in quel momento il suo amico Luca
stava rielaborando la probabile dinamica della sparizione del Malandato. Si
potevano quasi scorgere all’interno delle sue pupille le immagini che prendevano
forma e trovavano ordine nel cervello umano. Quando Luca si ridestò, tutto gli
era divenuto chiaro.
“Bob,
qualcuno ha aggredito il Malandato.”
Jake
e Scolo continuarono a raspare il lucchetto e Luca prese una grossa pietra con
la quale spaccò agevolmente il lucchetto di scarsa qualità.
La
valigia si aprì e ne uscì un forte odore di naftalina.
All’interno
pochi indumenti, fra i quali un vestito uguale a quello che Jake e Scolo
avevano visto un giorno che una coppia di umani aveva fatto una specie di
servizio fotografico lungo il naviglio. In quell’occasione avevano appreso che quelle
cerimonie venivano chiamate matrimoni. Un paio di scarpe quasi nuove,
coordinate con il vestito, e un quaderno pieno di foto. Luca prese il quaderno
e lo sfogliò.
Jake
e Scolo videro una serie di immagini che ritraevano un uomo che assomigliava in
modo vago al Malandato e che aveva tutti e due gli occhi sani, insieme a una
donna molto bella e a un paio di cuccioli d’uomo che li tiravano per i
pantaloni.
Poi
Luca prese un foglio ripiegato in cinque o sei parti e lo aprì, ma non capì di
cosa si trattasse.
Era
una di quelle pezze di carta che gli umani mettevano sotto i piatti quando
mangiavano nella cascina poco più su, dove Scolo aveva fatto festa la sera
prima.
Le
due nutrie lo osservarono con la loro tipica curiosità e dopo grandi sforzi di
meningi compresero che cosa avevano scoperto.
Nel
centro del foglio si trovava un punto nero intorno al quale una mano aveva
disegnato delle righe verticali più o meno lunghe. La stessa mano aveva
disegnato quelle che gli umani chiamano lettere e Luca le lesse incerto:
“Duomo”.
“Il
Duomo è il vero centro della città di Milano” disse Scolo, dando una botta a
Jake.
Intorno
a quel Duomo stilizzato si allargavano una serie di cerchi concentrici, come se
qualcuno avesse buttato una grossa pietra nell’acqua e le onde avessero
iniziato a propagarsi verso la periferia del foglio. Una rappresentazione
stilizzata della città, composta da onde continue di cemento, case e persone
che si spingono senza soluzione di continuità dal centro alla periferia. Su
quei segni concentrici qualcuno aveva incollato alcune immagini, ritagliate
probabilmente da qualche giornale. Di fianco ai pezzi di collage, la stessa
mano aveva annotato qualcosa e aveva tracciato delle “x”. Non su tutte le
immagini, però.
Luca,
ignaro, continuava a leggere ad alta voce: “Castello Sforzesco. City Life.
Bosco Verticale. Piazza Gae Aulenti”, ma a quel punto Jake e Scolo non lo ascoltavano
più.
“Una
mappa, Scolo!!! Questa è la mappa del Malandato e doveva essere molto preziosa
per lui.”
“Certo,
Jake, era il suo tesoro. La teneva insieme alle vecchie foto della sua famiglia
e dei suoi cuccioli. Non aveva niente di più prezioso e chi lo ha aggredito
cercava sicuramente questo pezzo di carta.”
Luca
si mosse in fretta: prese Jake in braccio e tornò sul ponte ripiegando la mappa
del Malandato e riponendola in fondo alla tasca della sua giacca.
“Scolo,
tu indaga alla cascina e chiedi in giro” disse Jake. “Io intanto cercherò di
capirci qualcosa di più.”
Luca
era scosso. Sul divano non aveva nemmeno guardato uno dei suoi dvd preferiti e aveva
avuto occhi solo per il quaderno con le foto del Malandato. La mappa l’aveva infilata
tra la copertina e la prima pagina, ma non sembrava interessargli. A me,
invece, interessava eccome. Certo, anche le foto erano particolari. Il
Malandato lì sembrava un’altra persona, ma a me piaceva ricordarlo per come lo
vedevo sempre: un uomo basso e un po’ curvo, con un occhio solo e vestito con
il suo lungo pastrano e il cappello a righe che gli ingarbugliava i lunghi
capelli sempre sporchissimi. Per non parlare della benda nera che gli copriva
mezza faccia, l’occhio di vetro che spesso gli cascava quando non la indossava
e i suoi proverbiali orecchini d’oro.
Il
Malandato era diventato un vecchio filibustiere d’acqua dolce, ma anni prima
doveva essere stato una persona normale e, adesso, qualcuno lo aveva fatto
sparire.
Mi
dovevo spremere il cervello per capire quale sarebbe stata la nostra prossima
mossa. Per farlo dovevo sfogliare la mappa: da dove sarebbe partita la nostra
indagine e perché il Malandato aveva messo tutte quelle “x”?
Santa
Nutria, che rompicapo!
[1]
Nota di Jake – Voi umani non conoscete il nostro pantheon e soprattutto non sapete che
per noi il tempo scorre in modo diverso dal vostro. Un anno nutria è pari a
quattordici anni umani, quindi per noi i fatti che vi sto per raccontare risalgono
a un’era lontanissima. La Castorina, la Piaga dei conciatori, l’Incubo dei
tassidermisti, nel lontanissimo 1989 aveva guidato una sanguinosa ribellione
contro le concerie della bassa bergamasca e milanese, e le aveva costrette a
chiudere i battenti facendo fuggire tutte le nutrie imprigionate per le loro
pellicce caldissime e a basso costo. Le gesta della Castorina, il Flagello dei
venditori di visoni farlocchi, sono raccolte in un libro di saghe curato da
Nutria Nutriasson, un grande poeta del passato che abitava giù, verso l’ansa
che la Martesana fa a Greco. È una lettura che tutte le nonne nutrie fanno alle
nidiate di nipotini per forgiarne la vis pugnandi ed è un argomento di
grande effetto e di sicura presa.
[2]
NdJ – Vi ho detto che un anno
nutria è pari a quattordici dei vostri, no? Ecco, per un mese nutria fate voi i
conti che io ho da fare…
DIAMO UFFICIALMENTE IL VIA AI SUGGERIMENTI! ASPETTIAMO I VOSTRI SPUNTI SU COME CONTINUARE IL ROMANZO ENTRO LE ORE 12 DEL 28 MARZO QUI, SU FACEBOOK.COM/STRASTORIE O VIA MAIL A STRASTORIE@GMAIL.COM!
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Ecco il primo spunto dell'edizione di StraStorie ExtraLarge, ricevuto su Facebook da Laura:
RispondiElimina"Il Malandato non era sempre stato così: anni prima (oramai aveva perso il conto) aveva una vita normale, anzi, una vita di successo, una moglie, dei figli, un’attività fiorente.
E quel soprannome non se l’era guadagnato per l’aspetto fisico (ai tempi era stato decisamente un bell’uomo) ma per un affare “andato a male”, nel vero senso del termine.
La famiglia di Giovanni Audisio, quello era il suo vero nome, gestiva una piccola macelleria in via Orefici, solo carne scelta di Carrù, direttamente dai pascoli del cuneese.
Giovanni aveva la mente per gli affari e in breve trasformò la Macelleria delle Alpi di Audisio Giovanni padre, figlio e nipote (i piemontesi sono famosi per la loro fantasia ndr) in un fiorente commercio di carni.
Aveva affittato un terreno in zona Lambrate e ci aveva costruito un moderno centro di stoccaggio e lavorazione di bovini: era quasi tutta sua la carne che ogni giorno veniva servita nei ristoranti del centro.
Tutto questo successo iniziò a dare fastidio a qualcuno, forse al temibile cartello dell’Agnus argentino o ai toscani della Chianina. Fatto sta che la sera del 24 aprile, un giovedì, qualcuno si intrufolò nel capannone frigorifero di Audisio e, complice un fortunale che da giorni stava devastando Milano con continue interruzioni alla corrente elettrica, manomise i cavi del generatore d’emergenza.
Il fatto venne scoperto solo il successivo lunedì mattina, quando i primi operai di ritorno dal ponte aprirono i portelloni e quasi svennero all’olezzo di 150 tonnellate di carne putrefatta. Da qui il suo soprannome, il Malandato, perché tutta la sua vita era “andata a male” insieme ai suoi quarti di bue.
Giovanni non riuscì più a riprendersi da questo tracollo: l’inchiesta non portò a nulla, l’assicurazione tardò a risarcire e il Comune di Milano pretese subito la quota per lo smaltimento della carne putrida.
Un venerdì di luglio uscì di casa alla solita ora per andare in macelleria ma non tornò mai più. A casa la bella moglie, la figlia e quel figlio così dolce e speciale rimasero ad aspettarlo per anni."
Ecco lo spunto ricevuto da Paola via mail a strastorie@gmail.com:
RispondiEliminaEcco lo spunto inviato da Paola a strastorie@gmail.com:
...."Luca ha lasciato la valigia abbandonata e aperta nel nido del Malandato, e forse vale la pena di ritornare a ispezionarla, finché il rompicapo della mappa rimane chiuso nella sua tasca e quindi difficile da studiare; torno sulle mie zampe e mi ritrovo presto a lottare col borsone rovesciandomi addosso il contenuto. Mi infilo e disinfilo in ogni indumento, huaw... la giacca mi dà una certa eleganza, e huaw... cosa c'è in questa tasca che mi graffia la zampa?
Concentro gli sforzi per divincolarmi e infilandoci muso e baffi, riesco ad estrapolare il contenuto: un sacchetto di velo trasparente con dentro tappi di bottiglie (si sembrano quelli delle bevande gialle e schiumose presenti alle chiacchiere fra umani), luccicanti da una parte e segnati dall'altra, con una chiara lettera scritta in rosso.
Il mio muso si è infilato soddisfatto nella rotondità del nastro che chiude ben stretto il sacchetto e questo mi dà la possibilità di portare facilmente il mio bottino da Luca." ...
Durante il primo incontro dal vivo di StraStorie del 21 marzo abbiamo ricevuto tre spunti dalle persone che hanno partecipato.
RispondiEliminaGiuliano sottolinea che Jake la Nutria, Scolo e Raf, in quanto animali, possono sfruttare il fatto di guardare e ascoltare ciò che succede senza essere notati dagli esseri umani.
Marina suggerisce un possibile lieto fine al femminile in cui compare la figura di una ragazza che dà da mangiare ai gatti in zona Martesana. Potrebbe nascere qualcosa tra lei e Luca, il grande amico di Jake la Nutria?
Massimo condivide un’informazione nutriogastronomica, sostenendo le nutrie sono davvero molto ghiotte di bucce d'anguria.
Ecco lo spunto ricevuto da Graziella via mail:
RispondiEliminaIL MALANDATO
Il Malandato, con il cappellaccio, il vecchio pastrano sdrucito e i capelli sporchi, era un ex professore. Molti anni addietro era stato un insegnante in gamba, aveva insegnato disegno in un istituto d' arte a Varese. Con la sua aria da bohémien, con i suoi cappottoni lunghi, il cappello floscio in testa, un'aria vagamente assorta era un personaggio e non passava inosservato. Colto, aveva una preparazione vasta e una predilezione per l'arte del tessuto, per la tessitura dei popoli antichi. Con alcuni colleghi, nei tempi che furono, aveva formato un gruppetto, un trio di studiosi, che aveva perlustrato in lungo e in largo gli insediamenti celtici e romani nell'Italia settentrionale, in particolare in Lombardia e in Friuli, regione dove aveva fatto il servizio militare. I loro non erano sempre appostamenti e approfondimenti di solo studio. Spesso vi avevano affiancato traffici illeciti e avevano passato brutti momenti. Sembra che alla ricerca di un particolare tessuto o meglio di un disegno impresso dai Celti nei loro tessuti di cui qualche particolare era noto ma molto restava ancora da scoprire, per spostare dunque un pesante masso che ostruiva un passaggio avesse usato della dinamite e nell'esplosione avesse perso l'occhio. Per lasciare decantare le acque, come si suol dire, il team si era sciolto; poi i casi della vita li avevano dispersi, però ognuno per proprio conto aveva continuato studi e traffici. L'attività non sempre solare e tranquilla, le continue assenze da scuola avevano avuto riscontri negativi sia nell'insegnamento sia in famiglia.
Forse la scomparsa non era un rapimento bensì solo un ritorno alle origini... I vecchi compagni si erano rifatti vivi, avevano per le mani un affare importante e non c'era tempo da perdere. Alcuni ritrovamenti avvenuti a Milano avevano dato un'accelerazione alle loro macchinazioni. La loro attenzione doveva essere rivolta verso i Navigli, verso i canali che su su arrivavano fino al Maggiore. Era lungo le vie d'acqua che Celti e Romani svolgevano i loro commerci. Forse questi luoghi nascondevano ancora molti "tesori" da scoprire. Così il Malandato, raggiunto dagli altri senza preavviso, era partito in fretta lasciando un po' tutto sottosopra dando adito a scenari inquietanti.
JAKE e SCOLO
Jake e Scolo non si davano pace, bisognava agire... I Navigli erano un po' il loro punto forte, bisognava indagare, capire se era accaduto qualcosa di insolito, tipo incontri sospetti tra umani vagabondi, verificare se c'erano stati strani viavai. Scolo si ricordava di avere una vecchia conoscenza dalle parti del Maggiore, una che gironzolava spesso da un canale all'altro, una cornacchia un po' petulante e ficcanaso... sempre alla ricerca di qualche luccichio su cui piombare, di qualche fatto su cui sparlare.
Sì, cra cra, era proprio Golasecca quella che serviva a loro in questo momento.
N.B. Golasecca viene chiamata così in riferimento agli insediamenti di origine celtica presenti sulle rive del lago Maggiore.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaEcco lo spunto suggerito a voce a Francesco Gallone dal suo omonimo Francesco, un ispettore del mercato:
RispondiEliminaI cani randagi di Mosca.
Gli etologi stanno studiando gli effetti dell'urbanizzazione sui comportamenti animali. A Mosca, i randagi di periferia prendono la metrò per andare in centro dov'è facile trovare cibo, la sera tornano in periferia dove si sta più tranquilli. Addirittura per non dare nell'occhio il branco si sparpaglia, un cane per vagone.
Ecco lo spunto inviato da Pier via mail:
RispondiEliminaLuca cercava di concentrarsi su quella mappa e su quelle croci. Passarono i consueti 15 minuti prima che potesse riprendersi dai suoi pensieri.
"ebbene si" esclamò improvvisamente.
Si alzò come una furia dal divano tanto che il povero Jack ebbe un soprabbalzo.
Luca lasciò il suo nascondiglio e si precipitò in strada dove imboccò quasi di corsa la via Topis.
Jack capì che sotto c'era qualcosa e si affrettò a seguire l'amico.
Luca stava pensando a quella croce che era posta sul Duomo più importante d'Italia.
Luca davanti e la nutria dietro potevano sembrare una coppia un po' strana; per fortuna il buio della notte stava avvolgendo le strade della città. Vi erano qualche guardia qua e là e qualche passante che in realtà erano più assorti di Luca nei loro ragionamenti.
Nessuno faceva loro caso.
Quasi di corsa i due arrivarono in piazza Duomo.
Luca estrasse di nuovo la mappa e la guardò e riguardò mentre Jack se ne stava in disparte.
In realtà la X non era collocata sul Duomo, pensò Luca.
Era collocata in posizione frontale rispetto alla grande chiesa.
A questo punto Luca iniziò a perlustrare la piazza in lungo ed in largo.
Jack lo guardava sempre più preoccupato.
La X si collocava proprio sulla statua di Vittorio Emanuele che dal suo cavallo di fronte a se osserva il Duomo.
Luca allora iniziò a tastare il basamento della statua e cercare ma senza successo.
La nutria capì che era il momento di aiutarlo e decise di cercare la banda delle nutrie di piazza San Babila che dominava in centro.
La banda era nota per le sue ... scorribande notturne e per la vita modaiola che seguiva.
Era capeggiata dal suo caro amico, LISCIONE, una nutria tutta d'un pezzo, grande conquistatore di femmine.
Dopo una ricerca piuttosto lunga la banda del Liscione si materializzò avanti a Luca.
Un breve consulto tra nutrie ed il Liscione ritenne fosse il caso di far intervenire la memoria storica di tutte le nutrie del centro ovvero il GRANDE VECCHIO.
Colui che tutto conosceva.
Ancora una ricerca e finalmente il GV si materializza avanti al gruppo con il suo stuolo di consorti.
La domanda era questa: c'era qualcosa dentro o sotto la statua?
Il GV parlò sottovoce alla sua consorte giovane e questa si arrampicò sulla statua e zampettò vicino alla sella; improvvisamente, nel basamento si aprì un passaggio segreto.
Questo portava nel sottosuolo ove da una ampia sala dipartivano tre cunicoli.
Luca e le nutrie si infilarono ed iniziarono a perlustrare le vie.
Il gruppo di destra fu più fortunato: aveva trovato una cassa piuttosto ingombrante.
Luca dovette rompere il lucchetto con un sasso.
All'interno c'erano diverse pergamene e libri antichi o almeno molto rovinati.
Era probabilmente quello il tesoro del Malandato.
Luca iniziò ad esaminarli.
Il GV attirò la sua attenzione su un testo di colore rosso un po' più piccolo degli altri.
Luca iniziò la lettura: era un volume che faceva parte di una trilogia.
Chi avrebbe conquistato i tre volumi avrebbe conquistato il grande tesoro di CAPITAN UNCINO.
Ogni volume conteneva un indizio, una traccia.
Luca guardò la mappa e vide che vi erano tre croci ...